Segnalazione:
L'ultima primavera del secolo
diDomenico Ippolito
di
Domenico Ippolito
Buongiorno lettori,
vi segnalo il romanzo: "L'ultima primavera del secolo " di Domenico Ippolito, edito Aporema Edizioni.
Biografia:
Domenico Ippolito, classe 1980, è nato a Gioia del Colle, in provincia di Bari. Laureato in Comunicazione alla "Sapienza" di Roma, lavora come copywriter e traduttore. Scrive sulle webzine Ondacinema, Flanerí, Linkiesta e il blog Kater. Ha pubblicato racconti su diverse riviste letterarie, tra cui Narrandom e TerraNullius. Nel 2020 è stato finalista al premio “InediTO – Colline di Torino” nella sezione dedicata a Giovanni Arpino. “L’ultima primavera del secolo” è il suo romanzo d’esordio.
Data di pubblicazione: dicembre 2019
Numero pagine: 225Prezzo cartaceo: 13,20€
Prezzo ebook: 1,03€
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Sinossi:
Il ventesimo secolo, che ha già visto fiumi di sangue sgorgare dalla follia umana, si chiude con l'ennesima guerra. Per intervenire nel conflitto in Kosovo, dalle coste della Puglia decollano gli aerei della N.A.T.O. a sganciare bombe sui Balcani: per mettere fine alla morte, ancora una volta si semina morte. Finita la terza media, Fabio deve affrontare una guerra personale, non meno incerta, violenta e carica di insidie: quella per diventare adulto. Mentre dalla sua terra osserva ali armate solcare l'Adriatico, è costretto a compiere scelte destinate a cambiare in modo radicale la sua vita. Saprà destreggiarsi tra i saggi consigli della professoressa di lettere, la severità del padre, l'affetto della madre e le pericolose tentazioni, figlie di un ambiente sociale degradato? Sarà capace di gestire le esplosioni emotive del suo cuore, distinguendo l'amore dall'infatuazione e l'amicizia dalla convenienza?
Eccovi anche un estratto, è il Prologo del libro:
Ha sparato. Ha sparato due volte.
Lo vedo uscire dalla casa e puntare la pistola in alto, come uno starter sulla linea di partenza, mentre urla di fermarmi. Il primo colpo va a vuoto e finisce dentro la fronda della quercia: le foglie, distrutte dal proiettile, schizzano in alto in una pioggia di ramoscelli in frantumi, insieme al frullo d’ali degli uccelli. Comincio a correre più veloce di prima. Questa è una gara di sopravvivenza: se non scappo, sono morto. Con la coda dell’occhio, vedo puntare il braccio dritto verso di me. Prende la mira: il secondo sparo infuoca il buio, sento un boato dentro l’orecchio destro, una sferzata sul timpano. Le mie gambe s’incrociano, cado in ginocchio nel fango fresco, in mezzo alle foglie spappolate dalla pioggia. Non ci posso credere che mi abbia sparato davvero: mi viene quasi da ridere, è assurdo che l’abbia fatto. Mai avrei immaginato che a quindici anni potessi finire giustiziato in mezzo alla campagna. Inspiro, cercando di riprendermi, e un tanfo di carne bruciata mi riempie le narici. Sono ancora vivo. Mi rialzo e riprendo a correre, senza pantaloni né scarpe. Prometto a me stesso di non fermarmi più: meglio un proiettile nella schiena o alla nuca, meglio morire di faccia dentro la fanghiglia, piuttosto che implorare pietà, per poi finire ammazzati lo stesso. «È solo una puttana!» hanno gridato nella casa. Continuo a correre, più forte di quanto non abbia mai fatto in vita mia, sotto il diluvio, col palmo premuto sull’orecchio destro. Il sangue mi cola caldo in mezzo alle dita, ma non mi azzardo a togliere la mano, ho paura che l’orecchio si stacchi e cada per terra. Nelle orme fangose lascio dietro di me una seconda traccia, rossa e indelebile. Ecco la ferrovia, i lampioni in cemento armato che illuminano la campagna di Acquaviva, gli alberi, rigidi come sentinelle, che montano la guardia nella notte... Corro sui binari, in mezzo alle traversine di legno e le pietre taglienti, incurante dei treni che potrebbero arrivare in qualsiasi momento. Ma è tardi, non ne passerà nemmeno uno. In queste notti di primavera c’è traffico solo in cielo. I caccia militari sfrecciano per andare a sganciare le loro bombe dall’altra parte dell’Adriatico, in Serbia e in Kosovo. Proprio ora spunta uno di quei bestioni: lo riconosco, è un Harrier e la sua scia di luce bianca squarcia in due il buio. Potrei correre più forte degli aerei, arrivare all’aeroporto militare di Gioia del Colle e impedirne la partenza. Invece non riesco più nemmeno a camminare: le gambe sono diventate un ricordo, ho dolore al petto. Mi fermo, mi accartoccio sui binari e piango. Sono abbastanza lucido da capire di non essere ancora al sicuro, così mi trascino a carponi per altri dieci metri e trovo rifugio nell’insenatura di un piccolo stagno, almeno non mi trovo più in campo aperto. Mi costringo a pensare a qualcosa di bello: a lei, al suo 6 vestitino corto di jeans che le lasciava scoperte le gambe dorate dal sole... Urlo il suo nome, maledico la guerra e tutti gli uomini.
Molto interessante, lo leggerete?
Buona lettura!
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