Segnalazione:VeradiAnnarita Mangialardo
Buongiorno lettori,
Quel pomeriggio, Vera era rimasta in
casa a guardare la televisione. Non impazziva per tutti quei colori confusi che
apparivano sullo schermo, che sembravano voler crescere in quella scatola
artificiale. A differenza dei suoi compagni di classe, a scuola non parlava mai
di ciò che vedeva in televisione. Non era proprio una cosa che faceva per lei.
Ciò che non l’aveva mai convinta, di quei pomeriggi curiosi passati di fronte
allo schermo della TV, era la confusione dei colori e delle forme che si
discioglievano in qualcosa di opaco, di non abbastanza vivo. Vera percepiva
molto bene questa mancanza, e laddove gli altri si entusiasmavano, lei vedeva
invece confusione, un volo solo tentato, un’altezza da terra mai raggiunta.
Queste erano le sue sensazioni, un po’
infantili e sicuramente non facili da definire. Col tempo avrebbe spiegato la
faccenda in questo modo: la televisione le dava l’idea di una costruzione che
falliva già in partenza, perché nessuno di quei colori, nessuna delle cose che
venivano dette, era realmente sentita; erano cose buttate là, che non
riuscivano a toccare veramente nel profondo chi le guardava, almeno secondo
lei.
Per via del lavoro dei genitori, quando
Vera veniva lasciata da sola in casa, la televisione si accendeva magicamente,
di solito sintonizzata sul canale che trasmetteva cartoni animati a raffica. E
anche se non impazziva per tutto ciò, finiva comunque per passarci due o tre
ore, magari fra uno spuntino e l’altro. Poi, arrivata a un certo punto, non
resisteva più: lasciava la televisione accesa – non sapeva neppure come
spegnerla – e si rintanava in cucina fra l’odore di caffè, biscotti e cucinato,
oppure in giardino, dove l’odore dei fiori, del detersivo che proveniva dal
bucato steso o semplicemente l’odore della stagione – amava in particolare
l’autunno perché le dava l’idea di qualcosa di indefinito, di dolce ma non
troppo – con tre o quattro fogli, matite colorate e iniziava a disegnare.
Le piaceva riportare ciò che vedeva su
quel foglio, anche se il risultato non era mai fedele in tutto e per tutto alla
sua visione. All’inizio qualcuno l’aveva criticata – come se si potesse
criticare davvero l’arte di un bambino! – dicendo che quello non era il modo di
ritrarre un paesaggio, che bisognava attenersi alla realtà; che – e questo la
feriva particolarmente – non si poteva rappresentare il mondo come pare e
piace, che bisognava insomma “darsi una regolata”, per citare l’affermazione
del suo insegnante di storia dell’arte qualche anno dopo, al liceo. Lo stesso
che si sarebbe poi complimentato con lei quando aveva vinto un piccolo concorso
fotografico con un lavoro surrealista, dicendole che era veramente brava, che
aveva talento e che lui l’aveva sempre saputo.
Disegnava, quel pomeriggio, ma pensava
anche alla nuova prospettiva di scolpire. Ma non pensava, per nulla, alle
parole della madre, quelle ultime parole dette con una strana calma prima di
uscire di casa.
Restò a disegnare per diverse ore, non
si accorse del tempo che passava, neppure quando il sole iniziò ad abbassarsi
oltre l’orizzonte, il cielo si fece rosso fuoco e il tepore di quella giornata
di metà stagione iniziò a tramutarsi in un fresco fuori da ogni tempo ed epoca.
Vera prese una matita rossa e iniziò a
sparpagliare il colore su tutto il foglio, a piccoli tratti. Era una delle cose
che avrebbe mandato in bestia il suo professore. Ma non si era piegata alle
richieste di “attenersi alla realtà”, quel discorso non faceva proprio per lei.
Tanto che, alla fine, prese il blu – che in quel momento non rappresentava più
alcun colore nel cielo divenuto quasi rosa – e iniziò a lasciare segni forti,
decisi, e ondulati lungo tutto il percorso del cielo, sulla parte superiore del
foglio. Ciò che venne fuori le piacque non poco: una lunga scia di striature
blu mescolate al rosso fuoco del cielo. L’idea era quella della notte, la
sensazione era che quel buio, quella sorta di atmosfera notturna che tanto la
accompagnava quando non riusciva a dormire, anche in piena notte, nella sua
cameretta, potesse essere sempre là, dietro le nuvole, a ridosso della luna, e
là osservava tutti gli esseri viventi: le persone, gli animali, gli alberi e
persino ciò che in apparenza non viveva, come i sassi, le strade, gli scalini
che conducevano al bar in fondo al viale, il muretto su cui si appoggiava
sempre quando la madre si bloccava in mezzo alla strada per rispondere a una
chiamata al cellulare. Tutto, in quella notte, era là a osservarla, anche se
non sempre visibile.
Il tempo volò con una facilità
disarmante e accompagnò la piccola Vera fino a quella notte tanto amata.
Il padre rientrò di colpo, sbraitando
contro il vicino di casa che aveva lasciato la macchina in doppia fila appena
fuori il viale dove abitavano.
«Accidenti» borbottò con quell’aria un
po’ dolce e affettuosa che aveva sempre.
Alberto era stato un padre amorevole,
forse il maschio più amorevole che Vera avesse mai conosciuto nella sua vita.
Era stato il suo desiderio, il suo principe prediletto. Il suo sogno.
«Vera, tua madre non ha telefonato?»
La piccola se ne stava in cucina, mezza
sonnecchiante.
Era già ora di cena e nessuno sembrava
essersene accorto.
«Vera?» ripeté il padre, il viso stanco
e arrugginito di chi ha passato la giornata in un negozio a parlare con i
clienti, a spostare scatole, a servire, a imbruttirsi a stento per non
imbruttire gli altri. «Ma mi vuoi rispondere?»
Il tono di voce era dolce, nonostante
tutto, solo un po’ preoccupato.
«Vera?»
La bambina si alzò di scatto dalla sedia
con lo sguardo e diede un’occhiata distratta al padre. «No, non ha telefonato.»
Il padre alzò un sopracciglio. Prese il
telefono e compose il numero, poggiato con la schiena sfinita e logora sul muro
del corridoio.
Restò in attesa per diverso tempo. A un
tratto persino Vera aguzzò la vista per guardare meglio il padre, quasi si
stesse preoccupando.
«Ah, Sonia!» sbuffò l’uomo «ci sei,
allora. Cazzo, mi hai fatto preoccupare. Sono a casa e la piccola non sapeva
niente.»
Vera sorrise, si divertiva sempre quando
il padre, burbero eppure dolce, si lasciava scappare qualche parolaccia. Lei
non le ripeteva mai, né a casa né a scuola, ma le piacevano perché davano
l’idea di una persona incapace di controllarsi e, dunque, più umana, viva, non
affettata, non alle prese con una qualche finzione per far contenti gli altri.
E suo padre, dietro quella barba consumata, gli occhi quasi sempre stanchi per
il lavoro, era una persona vera, come quando si arrabbiava e mandava tutti i
giornali all’aria, la mattina, fra una fetta biscottata e un caffè, prima di
accompagnarla a scuola, poi, con lo stesso sorriso che aveva abbandonato su
quel tavolo qualche minuto prima, senza risentimento, senza portarsi dietro
alcun odio.
«Dai, va bene» disse l’uomo «passo a
prenderti io. Potevi avvisarmi prima, però.» Non sembrava arrabbiato, era
piuttosto nervoso, aveva accumulato una certa preoccupazione per quella sorta
di “sparizione” della moglie e ora aveva bisogno di sfogarsi, di lasciarsi
andare. Quando chiuse la chiamata fece un lungo respiro gonfiandosi le guance,
un’altra cosa che a Vera faceva sorridere e non poco. «Tesoro…»
Vera disse: «Sì, papà?»
«La macchina si è fermata. Tua madre è
rimasta bloccata allo studio. Io…» Si versò rapidamente un bicchiere d’acqua
dal lavandino, la trangugiò, quindi lasciò il bicchiere sul tavolo «io vado a
prenderla. Mi faccio prestare la macchina da Beatrice, la vicina.» E poi le
ultime parole, prima di uscire, parole anch’esse che Vera avrebbe ricordato a
lungo ma che lì per lì non le dissero nulla, non potevano dirle nulla: «Riporto
mamma a casa. Così poi ceniamo tutti insieme.»
«D’accordo.»
«Allora vado. Tu potresti…» Alberto si
accarezzò il mento, la barba logora gli dava l’aria di un saggio, o di un
operaio abituato a lavorare sodo per dieci ore al giorno – che era ciò che
faceva – o di un filosofo, un pensatore oppure un artista, uno di quelli che
riempiono un’intera navata di una chiesa con un affresco. In cucina aprì uno
sportello e tirò fuori la pentola grande, la riempì velocemente d’acqua e la
lasciò sui fornelli. Restò un attimo a pensarci, poi mugolò qualcosa e accese
il fuoco. «Lascio l’acqua a bollire. Tu non toccare niente. Io e mamma torniamo
tra un quarto d’ora o poco più. Faccio presto!»
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