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Ilaria Vecchietti, autrice del racconto "L'ultima chance...", e dei romanzi fantasy "La Libertà figlia del Diavolo", "L'Isola dei Demoni" e "L'Imperatrice della Tredicesima Terra". E altri racconti pubblicati in raccolte.

mercoledì 5 gennaio 2022

Segnalazione: Archi di sangue di Giuseppe Pantano

Segnalazione:
Archi di sangue
di
Giuseppe Pantano



Buongiorno lettori,
per Brè Edizioni vi segnalo il romanzo "Archi di sangue" di Giuseppe Pantano.


Biografia:
Giuseppe Pantano nasce a Roma il 27 settembre 1963. È laureato in Economia e Commercio e attualmente riveste la carica di Direttore all’interno del gruppo automobilistico Renault-Nissan-Mitsubishi. Dopo 4 anni di Ford e 25 anni di Nissan ora è a capo di un ruolo internazionale in seno alla sede centrale di Nissan a Parigi. Divorziato, con 2 figli, vive a Milano con la compagna ed è un grande appassionato di tennis, sci e narrativa thriller/giallo. Nella sua carriera ha avuto l’opportunità di viaggiare davvero molto, scoprire tante città europee e di vivere per anni a Parigi, imparando a conoscere in profondità le dinamiche di una azienda multinazionale di importanza planetaria.
Archi di sangue è il terzo romanzo del genere thriller. Ha già autopubblicato Il Tempo rubato e La morte non ti lascia sola, edito da Another Coffee Stories. Ha già partecipato a svariate presentazione dei suoi romanzi, sia a livello locale, con pubblicazione degli eventi su Il Tirreno, ad agosto 2021, che nazionale, con la partecipazione alla trasmissione del TG5 “La Lettura” condotta da Carlo Gallucci.
Il suo profilo è presente su tutte le piattaforme social e la sua passione per il thriller viene diffusa anche attraverso il canale personale youtube con migliaia di visualizzazioni.

CONTATTI:
mail: giuseppepantanoauthor@gmail.com
Instagram giuseppepantanoauthor



Gene
re: romanzo thriller / noir / violenza domestica
Editore: Brè Edizioni
Data di pubblicazione: 25 ottobre 2021
Numero di pagine: 210
Prezzo cartaceo: 14,00€
Prezzo ebook: 3,99€ (gratis con Kindle Unlimited)
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Sinossi:
Caterina e Antonia: donne unite da uno stesso destino. Persone che, solo per il fatto di essere nate femmine, sono costrette a subire violenza. Sullo sfondo, lei, Giuseppina, l’eroina che combatte il mostro Carmelo. Che si adopera per salvare delle vite, che crede e lotta al fianco delle vittime. Una vicenda che inizia nel 1963 e si conclude ai giorni nostri e mette in evidenza come le cose non siano molto cambiate: il maschio padrone esisteva allora come oggi. E non importa se il violento è il tuo patrigno o il compagno, l’aggressività è da condannare. Sempre. Abusi e maltrattamenti che originano faide familiari, scandali e omicidi. Soprusi che danno vita a un thriller dove tante persone, troppi individui innocenti sono costretti a pagare anche a causa di forze dell’ordine corrotte, che non si fanno scrupoli a contaminare o nascondere le prove. Un giallo per rimarcare ancora una volta l’orribile piaga che dilaga anche nella società odierna.


Vi lascio  anche un estratto:

Anche la sua presenza in ascensore stava diventando insopportabile. L’odore acido e ributtante di grappa mista a birra, a quell’ora del giorno, aveva inondato in pochi secondi l’angusto spazio della cabina. Antonia premette il pulsante numero 5 e si girò verso la porta automatica dando le spalle all’uomo barcollante. Chiuse un attimo gli occhi e si immaginò lontano, in un posto diverso, a migliaia di chilometri da quella puzza vomitevole e da quel rudere umano che stava salendo insieme a lei, nella sua casa, nella sua vita. Si sentiva svuotata. Ormai anche gli ultimi tentativi di ricucire il rapporto con Alberto sembravano inutili quanto cucchiaini adoperati per svuotare il letto di un fiume in piena. La fiammella di un amore rimasta accesa solo grazie alla tolleranza e al suo desiderio di tranquillità, si stava spegnendo. Non ci sarebbero stati più il tempo e il modo per riaccenderla. Questo la intristiva ma soprattutto la preoccupava. Come avrebbe affrontato l’argomento con quell’uomo che, alla minima parola fuori posto, l’avrebbe colpita con la sua instabile e irrazionale violenza? Quali parole avrebbe dovuto usare per evitare conseguenze spiacevoli? Quale sarebbe stato il momento più propizio per convincerlo a fare le valigie e lasciarla sola nella sua casa? Si rese conto che rispondere a quelle domande banali, non era affatto facile. Tuttavia si sentiva stanca. La sua stanchezza non era una semplice défaillance fisica, era una spossatezza mentale che si ripercuoteva sulla sua capacità di raziocinio. Stava per raggiungere quel limite, di nuovo. Quel limite superato tanti anni prima, quando la violenza su di lei era stata perpetrata per la prima volta in un luogo oscuro, dove era stata costretta a subire. Sarebbe successo ancora una volta? Pensava che le sue preghiere l’avrebbero liberata per sempre dall’angoscia di doversi trasformare nella bestia che odiava. Il suo terribile segreto era custodito nel suo più intimo anfratto della memoria. Non era raggiungibile da niente e da nessuno. Solo lei era in grado di riportarlo alla luce. Ma non aveva mai voluto farlo. Aveva pregato per tutta la vita affinché non dovesse più fare ricorso a quella sfera recondita del suo animo. Adesso però, quel cumulo di macerie stratificate per seppellire la bestia erano state rimosse. Ne rimaneva solo una piccola quantità. Lei sapeva che quel residuo non sarebbe stato sufficiente a fermare la furia nascosta dentro di sé nel momento in cui avesse dovuto subire ancora. Quando aprì la porta di casa aveva un viso impassibile e serio, mentre l’uomo ubriaco alle sue spalle spingeva dietro il suo corpo per entrare in casa. Antonia strinse i pugni e socchiuse gli occhi, facendosi forza per sopportare ancora. Poi se ne andò in cucina lasciando che Alberto si sdraiasse sul divano in soggiorno. Prese a compiere le sue solite azioni: preparare il pranzo, apparecchiare, sgomberare il lavello e nutrire il gattino. Si rivolse all’animale che si stava strusciando sui suoi polpacci.

«Ciao piccolino, vuoi la pappa? Vieni che la mamma ti dà i croccantini». In quel momento fotografò la scena del micio tra i suoi piedi e la memoria la riportò a molti anni addietro.

«Micetto, vieni da me? Micetto hai fame? Non aver paura ci sono io qui che penso a te. Vediamo un po’ cosa ti posso dare.»

 Aveva aperto quel fagotto, confezionato al refettorio il giorno prima, proprio per il suo amico animaletto. Lei non aveva molti amici in quel posto oscuro dov’era costretta a vivere. Come lei, altri bambini sfortunati e dimenticati dalla società cercavano segnali di esistenza e di conforto in quello che trovavano nelle interminabili giornate trascorse in quel posto. La sua sola amica era stata Tilde, una bambina di cinque anni, arrivata due anni prima, poi però andata via con la coppia che l’aveva adottata. Antonia, che aveva otto anni, era una delle bambine rimaste a Badia per più tempo. Questa condizione avrebbe dovuto confortarla date le responsabilità che le suore assegnavano ai bambini più grandi. Tuttavia le monache alimentavano una specie di crudeltà innata, forse dovuta alla frustrazione di una vita spesso programmata dalla decisione di altri, e questo ne causava accanimento nei confronti di bambini come lei, più adulti e ospiti da sempre di quel posto. Il fatto che lei fosse arrivata fin dai primi giorni di vita e che fosse stata trovata davanti alla porta dell’istituto ne faceva, agli occhi delle religiose, una privilegiata in quel mondo di dolore e di sacrificio. Una ragazzina che andava “educata” e formata alle durezze della vita. Dopo tutti quegli anni in attesa di essere adottata, le suore la consideravano uno scarto. Una che nessuno voleva. Perché le coppie si presentavano sempre per l’affido di bimbi maschi o più piccoli, da crescere in casa sin dalla tenera età. Lei invece era già alta e bella matura. Prenderla poteva rappresentare un’incognita. Questo le suore lo avevano capito e tendevano ad addebitare ad Antonia quella sorta di colpa. Il suo destino sarebbe stato quello di farsi suora. Quindi quelle lezioni di disagio e sacrificio le sarebbero servite a forgiare la sua tempra da religiosa integerrima.

«Allora Micetto, oggi ti battezzo nel nome del padre, del figlio e dello Spirito Santo». Aveva preso dell’acqua e ne aveva versato due gocce sulla testolina del cucciolo. Un momento dopo sentì una voce gridare dietro di lei.

«Ma che fai piccola peste? Come ti permetti di essere blasfema e di offendere i sacramenti divini?». Era suor Giovanna, arrivata proprio in quell’istante.

«Ma io stavo solo accogliendo questo piccolo animale nel regno di Dio» aveva detto cominciando a piangere. Arrivò uno schiaffo, forte e secco sulla sua guancia sinistra. La suora aveva ripreso a rimproverarla.

«Sei sempre la solita diavola, così rischi tu di non entrare nel Regno dei Cieli» poi aveva ripreso con le parole di ammonimento «adesso vai su nel dormitorio e recita cinquanta Pater Noster. Oggi salterai il pranzo, tanto vedo che non sai che fartene del cibo. Poi ti proibisco di avvicinare ancora quella bestia. È malato, potresti buscarti qualche malattia e magari contagiare anche le tue compagne.» Era tornata a testa bassa verso la sua branda. Aveva sentito, per la prima volta, un dolore forte venire da dentro. Qualcosa di acuminato che spingeva dal profondo delle viscere cercando di farsi strada per esplodere. Non capiva cosa fosse ma ebbe la sensazione che quella forza potesse scatenarsi e lasciare solo dolore, immenso dolore intorno a sé.

Si riebbe dai pensieri. Cominciava ad avvertire un forte mal di testa. Cosse la pasta, la scolò e la versò nel piatto. La condì con della salsa di pomodoro che aveva scaldato appena sul fornello e la portò in soggiorno. Alberto era lì, steso sul divano, con gli stessi occhi a mezz’asta di prima e di sempre. Quelli che tradivano il suo aver alzato il gomito e la conseguente indolenza impadronitasi di lui ormai da troppo tempo. Antonia non sentì nemmeno le parole che la bocca di quell’uomo stava pronunciando mentre si alzava dal sofà per andare a sedersi al tavolo. Lei era entrata in una specie di trance, uno stato catatonico che le permetteva di muoversi in modo meccanico, estraniandosi del tutto da ciò che stava accadendo attorno a sé.

«Ma tu non mangi con me?» stava dicendo Alberto. Lei non si curò di rispondergli, aveva solo un obiettivo in quel momento: andarsene in camera per stendersi sul letto e chiudere gli occhi, nella speranza che l’emicrania se ne andasse velocemente, così com’era venuta.

«Che fai non mi rispondi?» continuò l’uomo, rivolgendosi alla compagna che sembrava assente, strana, lontana.

«Ehi, parlo con te, sei viva?» niente, non ottenne risposta.



Interessante, cosa ne dite?

Buona lettura!

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