Segnalazione:Archi di sanguediGiuseppe Pantano
Buongiorno lettori,
Anche la sua presenza in ascensore stava
diventando insopportabile. L’odore acido e ributtante di grappa mista a birra,
a quell’ora del giorno, aveva inondato in pochi secondi l’angusto spazio della
cabina. Antonia premette il pulsante numero 5 e si girò verso la porta
automatica dando le spalle all’uomo barcollante. Chiuse un attimo gli occhi e
si immaginò lontano, in un posto diverso, a migliaia di chilometri da quella
puzza vomitevole e da quel rudere umano che stava salendo insieme a lei, nella
sua casa, nella sua vita. Si sentiva svuotata. Ormai anche gli ultimi tentativi
di ricucire il rapporto con Alberto sembravano inutili quanto cucchiaini
adoperati per svuotare il letto di un fiume in piena. La fiammella di un amore
rimasta accesa solo grazie alla tolleranza e al suo desiderio di tranquillità,
si stava spegnendo. Non ci sarebbero stati più il tempo e il modo per
riaccenderla. Questo la intristiva ma soprattutto la preoccupava. Come avrebbe
affrontato l’argomento con quell’uomo che, alla minima parola fuori posto,
l’avrebbe colpita con la sua instabile e irrazionale violenza? Quali parole
avrebbe dovuto usare per evitare conseguenze spiacevoli? Quale sarebbe stato il
momento più propizio per convincerlo a fare le valigie e lasciarla sola nella
sua casa? Si rese conto che rispondere a quelle domande banali, non era affatto
facile. Tuttavia si sentiva stanca. La sua stanchezza non era una semplice défaillance fisica, era una spossatezza
mentale che si ripercuoteva sulla sua capacità di raziocinio. Stava per
raggiungere quel limite, di nuovo. Quel limite superato tanti anni prima,
quando la violenza su di lei era stata perpetrata per la prima volta in un
luogo oscuro, dove era stata costretta a subire. Sarebbe successo ancora una
volta? Pensava che le sue preghiere l’avrebbero liberata per sempre
dall’angoscia di doversi trasformare nella bestia che odiava. Il suo terribile
segreto era custodito nel suo più intimo anfratto della memoria. Non era
raggiungibile da niente e da nessuno. Solo lei era in grado di riportarlo alla
luce. Ma non aveva mai voluto farlo. Aveva pregato per tutta la vita affinché
non dovesse più fare ricorso a quella sfera recondita del suo animo. Adesso
però, quel cumulo di macerie stratificate per seppellire la bestia erano state
rimosse. Ne rimaneva solo una piccola quantità. Lei sapeva che quel residuo non
sarebbe stato sufficiente a fermare la furia nascosta dentro di sé nel momento
in cui avesse dovuto subire ancora. Quando aprì la porta di casa aveva un viso
impassibile e serio, mentre l’uomo ubriaco alle sue spalle spingeva dietro il
suo corpo per entrare in casa. Antonia strinse i pugni e socchiuse gli occhi,
facendosi forza per sopportare ancora. Poi se ne andò in cucina lasciando che
Alberto si sdraiasse sul divano in soggiorno. Prese a compiere le sue solite
azioni: preparare il pranzo, apparecchiare, sgomberare il lavello e nutrire il
gattino. Si rivolse all’animale che si stava strusciando sui suoi polpacci.
«Ciao piccolino, vuoi la pappa? Vieni che la
mamma ti dà i croccantini». In quel momento fotografò la scena del micio tra i
suoi piedi e la memoria la riportò a molti anni addietro.
«Micetto, vieni da me? Micetto hai fame? Non aver paura ci sono io
qui che penso a te. Vediamo un po’ cosa ti posso dare.»
Aveva aperto quel fagotto,
confezionato al refettorio il giorno prima, proprio per il suo amico
animaletto. Lei non aveva molti amici in quel posto oscuro dov’era costretta a
vivere. Come lei, altri bambini sfortunati e dimenticati dalla società
cercavano segnali di esistenza e di conforto in quello che trovavano nelle
interminabili giornate trascorse in quel posto. La sua sola amica era stata
Tilde, una bambina di cinque anni, arrivata due anni prima, poi però andata via
con la coppia che l’aveva adottata. Antonia, che aveva otto anni, era una delle
bambine rimaste a Badia per più tempo. Questa condizione avrebbe dovuto
confortarla date le responsabilità che le suore assegnavano ai bambini più
grandi. Tuttavia le monache alimentavano una specie di crudeltà innata, forse
dovuta alla frustrazione di una vita spesso programmata dalla decisione di
altri, e questo ne causava accanimento nei confronti di bambini come lei, più
adulti e ospiti da sempre di quel posto. Il fatto che lei fosse arrivata fin
dai primi giorni di vita e che fosse stata trovata davanti alla porta
dell’istituto ne faceva, agli occhi delle religiose, una privilegiata in quel
mondo di dolore e di sacrificio. Una ragazzina che andava “educata” e formata
alle durezze della vita. Dopo tutti quegli anni in attesa di essere adottata,
le suore la consideravano uno scarto. Una che nessuno voleva. Perché le coppie
si presentavano sempre per l’affido di bimbi maschi o più piccoli, da crescere
in casa sin dalla tenera età. Lei invece era già alta e bella matura. Prenderla
poteva rappresentare un’incognita. Questo le suore lo avevano capito e
tendevano ad addebitare ad Antonia quella sorta di colpa. Il suo destino
sarebbe stato quello di farsi suora. Quindi quelle lezioni di disagio e
sacrificio le sarebbero servite a forgiare la sua tempra da religiosa
integerrima.
«Allora Micetto, oggi ti battezzo nel nome del padre, del figlio e
dello Spirito Santo». Aveva preso dell’acqua e ne aveva versato due gocce sulla
testolina del cucciolo. Un momento dopo sentì una voce gridare dietro di lei.
«Ma che fai piccola peste? Come ti permetti di essere blasfema e di
offendere i sacramenti divini?». Era suor Giovanna, arrivata proprio in
quell’istante.
«Ma io stavo solo accogliendo questo piccolo animale nel regno di
Dio» aveva detto cominciando a piangere. Arrivò uno schiaffo, forte e secco
sulla sua guancia sinistra. La suora aveva ripreso a rimproverarla.
«Sei sempre la solita diavola, così rischi tu di non entrare nel
Regno dei Cieli» poi aveva ripreso con le parole di ammonimento «adesso vai su
nel dormitorio e recita cinquanta Pater Noster. Oggi salterai
il pranzo, tanto vedo che non sai che fartene del cibo. Poi ti proibisco di
avvicinare ancora quella bestia. È malato, potresti buscarti qualche malattia e
magari contagiare anche le tue compagne.» Era tornata a testa bassa verso la
sua branda. Aveva sentito, per la prima volta, un dolore forte venire da
dentro. Qualcosa di acuminato che spingeva dal profondo delle viscere cercando
di farsi strada per esplodere. Non capiva cosa fosse ma ebbe la sensazione che
quella forza potesse scatenarsi e lasciare solo dolore, immenso dolore intorno
a sé.
Si riebbe dai pensieri. Cominciava ad avvertire
un forte mal di testa. Cosse la pasta, la scolò e la versò nel piatto. La condì
con della salsa di pomodoro che aveva scaldato appena sul fornello e la portò
in soggiorno. Alberto era lì, steso sul divano, con gli stessi occhi a
mezz’asta di prima e di sempre. Quelli che tradivano il suo aver alzato il
gomito e la conseguente indolenza impadronitasi di lui ormai da troppo tempo.
Antonia non sentì nemmeno le parole che la bocca di quell’uomo stava
pronunciando mentre si alzava dal sofà per andare a sedersi al tavolo. Lei era
entrata in una specie di trance, uno stato catatonico che le permetteva di
muoversi in modo meccanico, estraniandosi del tutto da ciò che stava accadendo
attorno a sé.
«Ma tu non mangi con me?» stava dicendo
Alberto. Lei non si curò di rispondergli, aveva solo un obiettivo in quel
momento: andarsene in camera per stendersi sul letto e chiudere gli occhi,
nella speranza che l’emicrania se ne andasse velocemente, così com’era venuta.
«Che fai non mi rispondi?» continuò l’uomo,
rivolgendosi alla compagna che sembrava assente, strana, lontana.
«Ehi, parlo con te, sei viva?» niente, non
ottenne risposta.
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