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Ilaria Vecchietti, autrice del racconto "L'ultima chance...", e dei romanzi fantasy "La Libertà figlia del Diavolo", "L'Isola dei Demoni" e "L'Imperatrice della Tredicesima Terra". E altri racconti pubblicati in raccolte.

venerdì 28 febbraio 2020

Segnalazione: Fulgore della notte di Omar Viel

Segnalazione:
Fulgore della notte
di
Omar Viel



Buongiorno lettori,
oggi vi segnalo il romanzo: "Fulgore della notte" di Omar Viel, edito Adiaphora Edizioni.

«Un libro di magia, e la magia è la scrittura avvolgente. Se entri, preparati a fare i conti con il mistero e la prepotenza dei miracoli. Se hai anche la fortuna di uscirne, torni a casa con un sorriso.» — Gian Luca Favetto


Biografia:

Omar Viel ha studiato Conservazione dei Beni Culturali e si occupa di comunicazione in diversi ambiti, tra i quali quello artistico. È stato finalista del Premio Italo Calvino nel 1992 e ha pubblicato racconti su Nazione Indiana, Nuova Prosa e nell’antologia Venise, collection Bouquins, pubblicata dall’editore francese Robert Laffont.




Genere: romanzo narrativa

Editore: Adiaphora Edizioni
Data di pubblicazione: 30 settembre 2019
Numero pagine: 212
Prezzo cartaceo: 16,00€
Prezzo ebook: 2,79€
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Sinossi:
Gordon Wilson non si sarebbe dovuto trovare in quella casa. Inebriato dal fascino di una giovane sconosciuta, così simile a sua moglie Una, dà inavvertitamente vita a un incendio e, dalle fiamme, scivola nella realtà la sinuosa figura di una tigre. Gordon fugge, lasciando la propria famiglia disorientata. È un passaggio di testimone, quello con la figlia Liz, che da Bristol si reca a Londra alla ricerca del padre, per scoprire infine antichi prodigi e svelare i misteri degli Wilson. Passato e presente si intrecciano nella simbologia della specularità. Un viaggio fatto di incontri bizzarri con personaggi eterei, in equilibrio tra il mondo del visibile e quello dell’invisibile, tra l’universo tangibile e quello dell’immaginazione. Un cammino esistenziale, fisico, letterario, con incursioni nel poetico. Un romanzo composito nel quale si innesta un generoso tributo al Romanticismo inglese, che invita a lasciar andare gli ormeggi della ragione per abbandonarsi al dominio del possibile.


Vi lascio anche un estratto:
SPETTACOLI DA SOFFITTO
I fatti di Bristol cominciano qui.
Nel salotto si fronteggiavano poltrone dalle stoffe broccate, a righe o a quadri. Affiancate da bassi tavolini di legno scuro abitati da abat-jour e piante ornamentali, come uno spatifillo o una gardenia, oltre che da vassoi ricolmi di pot-pourri e cammei di ceramica dipinta.
Rachel scostò la mano dallo schienale del divano, che le assicurava un po’ di equilibrio, e si avvicinò alla credenza nell’angolo, tra due finestre. Prese da un cassetto una scatola di latta e tornò a sedere, minuscola nella grande poltrona di velluto scuro. Le mani tra le pieghe del vestito e, tra quelle mani, il viso di un uomo dai baffi a manubrio sormontato dalla scritta dorata Dr Martens.
Tutto ciò che per Rachel poteva avere un valore si trovava in quella credenza. Gordon lo sapeva e, quando lei gli offrì la scatola, l’accettò con sospetto.
Che cos’è? chiese.
L’eredità del tuo bisnonno, disse con semplicità Rachel.
La scatola doveva avere più di un secolo, almeno a giudicare dall’abbigliamento dell’uomo che occupava l’intero lato sinistro del coperchio, il Dr Martens, dal severo spirito ottocentesco. All’interno della latta l’eredità del bisnonno oscillava rumorosamente e questo fece pensare a Gordon che non si trattasse di niente di importante, niente di serio. Il genere di eccentricità che il peso della sua cultura avrebbe facilmente reso inoffensivo.
Dovresti darla a Liz, disse tentando di restituirla.
Cara Liz. Rachel rise. Lo sapevi che, per prima cosa, ogni mattina si preoccupa di scoprire se sono morta nel sonno? Naturalmente con lei sono stata chiara. Non è una sua responsabilità trovarmi morta. Tua figlia, però, non vuole sentire ragioni. Intende assicurare a tutti la salute o, nel caso, una degna sepoltura.
Gordon seguì le evoluzioni del vapore che si librava dalla teiera, finché non si dissolse nell’aria in quello che gli era sempre parso un gioco di prestigio.
Lo sapevi che Sidheag va a letto con due ragazzi? chiese Rachel.
È Liz che ti racconta queste cose?
A chi altro dovrebbe raccontarle? Parlare con te sarebbe una perdita di tempo. Ho sperato in tua moglie, ma anche lei mi ha delusa. A proposito, che cosa sta facendo Una?
È a Brean, rispose Gordon, per lo spiaggiamento di non so quale cetaceo.
Intendo dire che cosa fa per Sidheag.
Una è un veterinario, nonna. Si accorgerebbe di Sidheag solo se si spiaggiasse a Brean.
Oh, sentilo! esclamò Rachel scandalizzata, picchiettando con un dito sul bracciolo della poltrona. Tanti colpetti ritmici, come a voler calmare un animale in preda al nervosismo.
C’era chi descriveva Gordon Wilson come un uomo attraente ed era convinto che, per farsi strada nella vita, non gli sarebbe servito altro. L’altezza, il portamento, la naturale simmetria del viso e quella luce nello sguardo spingeva chiunque lo avvicinasse a fare un uso brillante delle proprie facoltà mentali. A quasi trentotto anni indossava ancora gli abiti di due decenni prima: Levi’s mutilati, camicie dai polsini sfilacciati e una giacca di velluto a coste larghe, color corteccia bagnata, che d’inverno accompagnava con una sciarpa di lana scadente, avvolta due o tre volte intorno al collo.
Il professor Gordon Wilson era amabile, sentimentale, emotivo, eppure incapace di soffrire per la vita fuori controllo delle figlie. Una vita disordinata, come la sua, del resto, o quella di Una. Proprio lui, che da studente era piaciuto alle ragazze almeno quanto da insegnante occupava la fantasia delle allieve e delle loro madri, si era rassegnato a credere che la sola forma di erotismo degna di questo nome consistesse nel dimenticare tutto ciò che aveva imparato nelle biblioteche dei dipartimenti di letteratura inglese. Lui la chiamava ispirazione neolaburista: un’intuizione di incantevole purezza che lo avrebbe liberato dalla devozione alla terra, dal rispetto delle istituzioni, dall’autorità dei suoi leader, consentendogli di entrare nelle grazie della nuova Britannia.
La darai tu a Liz, disse Rachel indicando il Dr Martens, che sul coperchio della latta si portava alle labbra una pastiglia per la gola. E raccontale questo. Raccontale che non era nelle intenzioni di mio padre tramandare la memoria della sua famiglia, la storia di quei minatori di Selby emigrati al sud. O la sua personale, la vita di Paul Dewhurst, rivenditore di carta nella vecchia Bristol, e della sua bottega così angusta che i clienti quasi non riuscivano a sfilare di tasca il portafogli per pagare il conto. Né che, a partire da quella rivendita, aveva inviato navi cariche di carta in tutto il Sudamerica. Papà non approvava le commemorazioni. Non era interessato alla riconoscenza. Il suo pensiero andava solo a quelli che avrebbero prosperato grazie alla sua fortuna.
Il pensiero di Gordon andò invece a Una e a Liz, alla loro dedizione, alla loro vitalità, alla confidenza che dimostravano per tutto ciò che rende sopportabile la vita. A volte, quando confessava alla moglie che forze lunari gli avevano imprigionato l’umore, lei rispondeva: Che importa, amore? Se il simile cura il simile, sarò io la tua medicina. E aveva ragione. Per sopravvivere alla vanità del presente, Gordon aveva bisogno di Una quanto delle funzioni vitali del corpo, che facevano del proprio lavoro una questione di vita o di morte - un’attitudine, dopo tutto, tradizionalmente laburista.
Rachel sollevò la teiera, lasciando cadere uno zampillo tra le corolle dei fiori dipinti sulla ceramica delle tazze, nel cuore del salotto ordinato e già predisposto per l’estate.
Gordon scostò il tovagliolo di stoffa che ricopriva il vassoio colmo di scones e le fece segno di continuare.
Papà non credeva nello stato sociale, riprese Rachel. Per lui, la sola garanzia di sopravvivenza era rappresentata dal patrimonio. Senza convinzione non esiste patrimonio, diceva. Una predisposizione d’animo, la chiamava. Un invito a desiderare. Così è stata la sua vita. Mio padre desiderava. Ha desiderato per me, per mio figlio e per due generazioni di nipoti. Ha desiderato con tanta convinzione, che ogni nuovo direttore della Barclays mi riceve ancora oggi senza appuntamento. Mi chiedo se qualcuno di voi sia capace di tanto. Non tu, e nemmeno Sidheag. Forse Liz. Sì, proprio Liz, che sembra potere tutto.
Gordon sorseggiò il tè, rendendosi conto di non essersi mai interessato al bisnonno o al denaro che aveva accumulato e che ora i suoi discendenti potevano permettersi di spendere. Non ricordava nemmeno di aver mai guardato con attenzione una fotografia di Paul, né avrebbe saputo dire dove fosse sepolto.
Eppure, quel mercante di carta era stato carne e ossa. Leggendario, sì. Epico, certamente. Disseccato in un simbolo, senza dubbio. E, malgrado ciò, ancora profondamente vivo, o perlomeno vivo abbastanza da offrirgli un’eredità celata in una scatola che lui, suo bisnipote, non desiderava aprire.
Gordon preferiva celebrare l’indifferenza, anziché aggiungere nuovo sapere alle proprie paure. Fingere che la scatola fosse vuota e camminare, camminare, far vivere il corpo ogni volta che i piedi toccavano terra. Centinaia di passi ogni miglio, migliaia di passi ogni giornata, incapace di credere che la memoria potesse ricordare per anni un verso di Browning e scordare in un istante la forma delle nuvole sospinte dal cielo ventoso nella valle dell’Avon.

Di ritorno da Brean, Una lasciò Bristol per partecipare a una tavola rotonda organizzata dalla Central Animal Clinic di Leeds.
La prima sera senza di lei, Gordon cenò con una confezione di noodles dimenticati da Sidheag sul tavolo della cucina, quindi salì in auto e si diresse alla palestra in Temple Way che Liz frequentava un paio di volte a settimana.
Pioveva, e alla guida della vecchia Volvo la latta gli pesava nella tasca come se contenesse i resti del bisnonno stesso.
Il parcheggio dove si fermò era quasi deserto. Liz tardava. Sui finestrini si ispessì un vapore marmoreo, isolando l’abitacolo dalla strada e trasformandolo nel palcoscenico ideale per i baffi del Dr Martens.
Gordon maneggiò la scatola con circospezione. Alla pressione dei pollici il coperchio si rovesciò. Dentro la latta brillavano due occhi infossati tra le minuscole orecchie dai contorni taglienti. Un topo lo scrutava. Un roditore mummificato, con una lacerazione a forma di stella su un fianco, una ferita profonda che avrebbe potuto formarsi soltanto su una sostanza croccante.
Restò in ascolto del sordido linguaggio di quelle forme, chiedendosi cos’avrebbero potuto rivelargli i resti di un topo vissuto ai tempi del bisnonno e imbalsamato da un tassidermista con un senso tutto vittoriano del macabro. Doveva essere la prova di quanto la natura detestasse conservare le immagini del passato, preferendo sbiadirle, farle a pezzi o, nella migliore delle ipotesi, renderle insopportabili alla sensibilità del presente. Richiuse la scatola.
La pioggia si era intensificata. Lo sportello si socchiuse e Liz infilò la testa nell’abitacolo.
Non sarebbe carino dare un passaggio a questa mia amica? chiese.
Gordon si sporse per scoprire chi fosse. La ragazza, però, non si fece vedere, come invece accadeva sempre con Abby che, in uno stato di inspiegabile euforia, diceva d’un fiato: Salve, professor Wilson, sono Abby Chapman, la figlia della signora Chapman, e restava in attesa che lui aggiungesse: E del signor Chapman, naturalmente, ridendo assieme.
Due ombre entrarono nell’auto, sospiranti, umide di vento.
Gordon ne distinse a malapena le sagome, la luce che avrebbe dovuto illuminare l’abitacolo era estinta da tempo e lui non l’aveva ancora sostituita.
L’auto, sbagliando strada, si diresse verso Bedminster Bridge. Improvvisi scrosci di pioggia spazzavano il parabrezza. Il cruscotto gemeva nello sforzo di contenere la furia del motore.
Lungo Coronation Road, Liz si sollevò dal sedile posteriore dove stava rannicchiata, sul punto di parlare, ma il rumore nell’abitacolo la costrinse a rinunciare.
Quando imboccarono Hotwell Road, Gordon capì di aver preso per la seconda volta la strada sbagliata. L’Avon ribolliva nella propria gola. L’auto risalì il promontorio, affiancando la parete di roccia. Lampi intermittenti fissavano in un’istantanea la frenesia dei cespugli, il loro terrore.
Qualche minuto dopo, la Volvo accostò al marciapiedi. Qualcosa vibrò. Asfalto, cemento, spettri di vegetazione. Il motore si spense.
Gordon raccolse alla cieca l’ombrello abbandonato ai piedi del sedile del passeggero, un oggetto ingombrante e lungo quanto un bastone da passeggio. Lo aprì e affrontò la tempesta. Il peso dell’acqua si posò sulle sue spalle. Aggirò l’auto, l’ombrello spalancato, e si fermò accanto alla portiera posteriore.
L’amica di Liz si strinse al suo fianco come se doves- 18 se infilarsi in un bozzolo invisibile.
Oltrepassarono un cancello, stretti sotto la corona vibrante dell’ombrello, e si avviarono lungo un sentiero.
Nel giardino trascurato l’odore della vegetazione era inebriante. Vi crescevano erba e trifoglio, fiori selvatici ed edera.
Si ripararono sotto il piccolo patio d’ingresso, mentre gli spiriti della notte fremevano nello sforzo di ricucire gli squarci del creato.
Gordon abbassò l’ombrello senza chiuderlo, aspettando che la ragazza aprisse la porta d’ingresso.
La serratura dà qualche problema, si scusò lei armeggiando con essa. Come del resto l’intera casa. Ma questo posto mi piace così com’è, aggiunse, con le sue finestre scricchiolanti e i suoi fantasmi.
Ti aiuto ad accendere la lampada a petrolio.
Lei rise e disse qualcosa nel suo accento australiano che lui non afferrò. Scherzò sul nome “Una”.
Da quanto Gordon poteva capire, anche lei si chiamava così. Si chiese se fosse per questo che Liz aveva preferito non presentargliela. Per quanto l’idea sembrasse curiosa, forse sua figlia si preoccupava che lui potesse confonderla con la madre.
Se non fosse che questa Una non assomigliava a Una. Nel viso di sua moglie c’erano più semplicità e calore. La carnagione era più pallida. Più alta, il collo più sottile. Non avrebbe mai potuto chiamare Una un’altra donna che non fosse Una. Dire: Buonanotte, Una. Buonanotte…
Si limitò ad affrettarsi lungo il sentiero che riportava alla macchina, prima che la curiosità lo trattenesse in quella casa.
Gli impegni di Una a Leeds e la sua preoccupazione per Gordon davano alle loro telefonate una brevità in cui trovava posto un solo argomento.
Sono in pensiero per te, diceva Una. Mentre partivo avevi una luce negli occhi che non mi fa stare tranquilla.
Ero alla finestra e c’era il sole, rispondeva lui. Un fatto insolito per l’Inghilterra occidentale.
Non riesco a sentirti, insisteva lei. Dimmi che dipende soltanto dalla distanza che separa Bristol da Leeds.
Dipende soltanto dalla distanza che separa Bristol da Leeds.
Mio Dio, Gordon!
Vedi, se solo provassi un qualsiasi stato d’animo, allora la mia malattia avrebbe un nome. Invece non sento niente. Questo significa che sono sano.
La vita affettiva di Gordon si raccoglieva attorno all’utero di Una. Lei era insieme il presente e il passato: si confondeva con l’alito femminile che lo aveva accudito nell’infanzia, con i baci ricevuti e resi nell’adolescenza, con la prossimità corporea e l’intimità dell’età adulta. Per spiegare come mondi femminili tanto lontani nel tempo potessero ritrovarsi uniti in una sola natura, viva e presente, era necessaria l’intuizione. Quella di cui era dotato Gordon gli suggeriva che tutti i corpi facevano parte di un unico spirito incarnato, multiforme, capace di vivere ogni vita, nascendo e morendo di continuo. In quello stesso momento, a Bristol, ad Aalborg, a Stoccarda o in qualunque altra parte del mondo, in Cina o tra gli inuit, Una viveva sotto forme diverse, come uomo e come donna, in altre case e in altri letti. Era probabile che lui stesso fosse una manifestazione di Una, una sua incarnazione, una costola del suo torace, una goccia di latte caduta dal suo seno. Sì, era questo che pensava. Pensava che i corpi fossero uniti da filamenti di sostanza primordiale, da bave di ragno capaci di formare delle tele estese su terre e acque, ponti gettati da una sponda all’altra degli oceani, come le mille braccia vediche di un unico spirito.

The chasm in which the sun has sunk is shut By darkest barriers of cinereous cloud Like mountain over mountain huddled but Growing and moving upwards in a crowd, And over it a space of watery blue Which the keen evening star is shining through.1

1 «L’abisso dove il sole è sprofondato è chiuso / da oscuri spalti di nube cinerea, / come montagne su montagne – ma che crescono / e si muovono in massa verso l’alto, / e sopra un lembo di acqueo azzurro, dove / l’intensa stella della sera splende.» Percy Bysshe Shelley, Sera. Ponte a Mare, Pisa, in Opere poetiche, Milano, Mondadori, 2018. Traduzione a cura di Francesco Rognoni e Massimo Mandolini Pesaresi.

Il giorno dopo, Gordon decise di tornare alla casa dell’amica di Liz per approfondire il fenomeno. Una, a Leeds, cenava con una ricercatrice di Birmingham, esaminando le minacce che incombevano sugli insetti impollinatori. Lui, a Bristol, camminava sotto un orizzonte fiammeggiante, affollato di detriti celesti.
La casa dell’amica di Liz era una delle tante abitazioni georgiane dell’isolato: infissi smaltati di bianco e lingue d’edera che strisciavano sui mattoni anneriti. Gordon osservò uno dopo l’altro gli abbaini sul tetto malconcio, le grandi finestre della facciata distribuite su due file regolari e sovrapposte, il timpano che dominava il patio sotto il quale, la sera prima, si erano riparati dalla pioggia. Pensò che chiunque avesse scelto di abitare in quel luogo dalle linee tanto rigorose doveva essere uno spirito geometrico o, più esattamente, simmetrico.
Si aggirò per il quartiere aspettando la notte. Allora ritrovò la casa raccolta nella vegetazione, i guasti del tempo addolciti dalle ombre. Percorse il sentiero e raggiunse l’ingresso senza l’intenzione di annunciarsi, come i ladri o i conquistatori o, con più diritto degli altri, gli esploratori. Un vaso vuoto, una piastrella rotta, fioriture, segni di decomposizione esposti alle luci della strada eppure già parte della vegetazione, dunque invulnerabili, invisibili. Si lasciò alle spalle arbusti, rovi e quel che restava di un roseto, e raggiunse il retro della casa rapido come un soffio di vento. Sotto una finestra illuminata grosse radici disegnavano tendini e vene su un fazzoletto d’erba. Gordon appoggiò la fronte contro il vetro, ormai del tutto certo della propria invisibilità.
Una leggeva seduta in cucina, a un capo del tavolo. Un vaso di fiori, una gabbia per uccelli e poi lei piegata su un fianco, le gambe accavallate in quella che aveva l’aria di essere una posizione provvisoria. La prima cosa che Gordon notò fu il dorso del libro rivolto al pavimento. Si sollevò aggrappandosi all’intonaco sabbioso del davanzale, ma non riuscì a vedere che cosa stesse leggendo. Da studente, quando urtava i passeggeri sull’autobus per Harborside, era tutto più semplice. La spinta li costringeva a sollevare la testa e a richiudere il libro. Se Gordon approvava la loro lettura, si scusava. Altrimenti, era lui a pretendere delle scuse.
Se è vero, pensò, che un libro rivela qualcosa del suo lettore, lo scaffale di una libreria ne dovrebbe fare il ritratto. Peccato che quella stanza non fosse una biblioteca, che tutto restasse in silenzio. Le scansie, la vasca 22 di pietra trasformata in lavello, il bicchiere accanto a Una e la bottiglia di vino fuori dalla sua portata all’altro lato del tavolo, come se, tra l’atto di versare e quello di sedersi, vi fosse stata un’azione che lui non riusciva a indovinare. Per un istante gli sembrò che l’intera cucina fluisse da quella bottiglia e fosse sul punto di tornarci dentro. Un vino del genere non doveva avere solo spirito. Era una presenza nell’universo della stanza. Come lui, del resto, almeno a giudicare dall’alone di vapore che aveva lasciato sul vetro. Vide se stesso alla finestra, il viso riflesso in un’intercapedine della realtà, l’espressione tanto equivoca che, in modo imprevedibile, lo spaventò e lo costrinse ad allontanarsi.

Nonostante ciò, non riuscì più a stare lontano da quella casa.
Ci passò davanti anche la mattina dopo, allungando il percorso che faceva a piedi quattro volte la settimana per raggiungere il St. Philip’s College, e lo stesso fece al ritorno, terminate le lezioni, quando andò a pranzare in un ristorante a Kingsdown. Dopo cena guidò fino a Saint Paul’s, a casa di suo padre. Da anni non ci viveva più nessuno e, malgrado ciò, ogni cosa veniva conservava in ordine. Il giardino, la rimessa, i piatti di porcellana. Un rapido sopralluogo nei corridoi, come aveva fatto ogni sera sua sorella Kate prima di trasferirsi in Italia. Annaffiò qualche pianta, cercò tracce di topi nelle stanze in cui era cresciuto e nelle quali suo padre aveva trascorso venti giorni durante gli ultimi vent’anni.
Da lì aggirò la periferia con una lunga discesa da nord. A Clifton East cominciò a piovere. Parcheggiò l’auto in un punto da cui poteva vedere gli alberi del giardino di Una. I rami gonfi d’acqua, pendenti, il verde 23 delle foglie che si liquefaceva.
Abbassò il sedile e chiuse gli occhi. Traiettorie di colore fluttuarono proiettate dietro le palpebre, lo schermo della visione interiore. Alla radio trasmettevano la Turandot e lui, che non conosceva l’italiano, capì parola per parola, senza incertezze. Un dono del Cielo che durò fino alla fine del primo atto, quando si rese conto che il libretto d’opera era nella traduzione inglese.

La sera dopo era nuovamente là. La stessa luce, la stessa vista sul giardino. La pioggia creò un legame tra i giorni. A Clifton per smascherare i mille volti dello spirito, Gordon scoprì di aver perso interesse per la casa e per chi l’abitava.
Era inevitabile che lui e Una finissero per incontrarsi.
Accadde il mattino del terzo giorno, quando lei lo notò dentro l’auto e bussò al finestrino.
Gordon le fece segno di salire. Chiuse il libro che stava leggendo e mise in vista la copertina, una logora edizione de Il trionfo della vita di Percy Bysshe Shelley di cui conosceva a memoria i quasi cinquecentocinquanta versi, terzina più, terzina meno. Se aveva rinunciato a recitare il testo ad alta voce era solo perché il fuoco sprigionato dalle parole gli ustionava la lingua. Un paradosso, a pensarci bene, dal momento che il corteo di anime descritto dal poeta gli aveva sempre fatto gelare il sangue. Una processione che non apparteneva all’Inferno dantesco, non erano corpi affannati alla ricerca di un Virgilio, ma ombre cadute dal cielo, assetate eppure incapaci di percepire il suono delle sorgenti che sgorgavano tra le rocce. Shelley viveva interamente in quei versi. Shelley il visionario, che parlava al presente di Gordon. Shelley il profeta, che preannunciava l’avvento di quegli anni senza speranza. Il suo eroe, il suo compagno di strada.
Una fu tanto delicata da non chiedergli che cosa ci facesse davanti casa sua. Si sedette, lesse il titolo raschiato sulla copertina del libro e qualcosa la divertì. Ogni libro parla del suo lettore, disse.
È quello che a volte penso anch’io, ammise Gordon.
E tu, domandò lei, cos’hai in comune con Shelley?
Gordon pensò che, sebbene fossero trascorsi quasi duecento anni da quella tempesta in cui era naufragato un pezzo di Romanticismo inglese, Shelley restasse molto più contemporaneo di lui. Eccentrico, aristocratico, ateo, epicureo, anarchico, sostenitore dell’amore libero, difensore dei diritti del proletariato, pacifista, vegetariano. Ecco, una somiglianza l’aveva trovata. Né lui né Shelley mettevano carne nel piatto in cui mangiavano. Non era molto, ma non poteva chiedere di più.
Da bambino, disse, andavo spesso a Clevedon. Accadeva la domenica mattina. Per papà andare a Clevedon significava portarmi a casa del cugino Maurice, ma per me era come oltrepassare una frontiera. Maurice era un bambino allegro, robusto, ispirato. Aveva nove o dieci anni. L’età di Kate, mia sorella. Io invece ne avevo cinque e pendevo dalle sue labbra che erano di un rosso succoso, luccicanti e zuccherine. Un giorno, lo trovai che giocava con una pietra focaia. Sfregane due tra loro, meglio se in un angolo buio, e sarà come assistere a uno spettacolo di fuochi d’artificio. Fu un’esperienza vibrante. L’eccitazione raggiunse picchi insostenibili e ne rimasi influenzato per ore, inesauribile, almeno finché non arrivò il momento di tornare a casa. Delle tre pietre ne ricevetti una, la più piccola. Così minuscola da essere inutile. Protestai, mi rivolsi al buon cuore di mio cugino. Sorrise, al centro delle guance si formarono delle fossette, gli occhi brillarono e, nel forte accento del West Country, a voce alta, mi convinse che esisteva un modo sicuro per duplicare la pirite, persino quella di dimensioni tanto piccole.
Una accavallava e scioglieva di continuo le gambe. La sua disposizione all’ascolto si rivelò rumorosa, un sottofondo di fruscii e sfregamenti.
Sento ancora la voce di Maurice mentre mi descrive ciò che avrei dovuto fare, continuò Gordon. Sali in macchina, mi ha detto, e all’altezza di Nailsea, finita la campagna, bagna di saliva la dannata unghia del pollice, mettici sopra la pietra focaia e bisbiglia questo incantesimo: abracadabra, asino e bue, dividiti in due.
Una si mosse liberamente sul sedile. La sua risata riempì l’abitacolo, le gambe si distesero, il crepitio delle calze ricordò quello di una pietra focaia.
Continua, disse.
Viaggiavo sul sedile anteriore della macchina, accanto a mio padre, quando, all’ingresso di Nailsea, provai un dolore che ancora non conoscevo. Ripetei l’incantesimo tre o quattro volte prima di rassegnarmi. Mi chiedo da cosa nascesse tanta disperazione. Dalla certezza del tradimento? Dall’umiliazione? O era qualcosa di peggiore? Di certo, avevo capito che Maurice aveva sconfessato la sacralità della parola, macchiandosi di una colpa infame…
Non credi di essere troppo severo? osservò Una.
Immagino che mio padre fosse del tuo stesso parere. L’ingenuità dei figli è sempre una seccatura. Eppure, in fin dei conti, si dimostrava più ingenuo di me. In quel dolore erano in gioco molte cose. La mia venerazione per Maurice, l’entusiasmo per una pietra che creava scintille, il fuoco di una formula magica. Come vedi, ero un bambino che credeva nel sacro, ma senza devozione. Proprio come Shelley.
Mi chiedevo quando saresti arrivato a Shelley, Una rise, ed eccomi accontentata. Il sacro è in vendita anche da Sainsbury’s, lo sapevi? L’altra sera, alla cassa, alcuni ragazzi mi hanno convinta ad acquistare un biglietto dell’Otello che daranno all’Old Vic Theatre.
Persuasori shakespeariani insediati nei supermercati.
Indossavano teste di tasso, orso, lupo e non so che altro, e magliette con su scritto: Non c’è guida migliore di Shakespeare.
Oh sì, niente di meglio di sherpa Shakespeare per avventurarsi nei crepacci dello spirito e banchettare con criminali psicopatici. Spiegami una cosa. Tu che hai l’accento delle colonie, quanto capisci dei suoi pentametri giambici?
Una rimase in silenzio.
E allora perché non chiedere il rimborso del biglietto? continuò Gordon. Sennonché, quando c’è di mezzo Shakespeare, nessuno spettatore è mai insoddisfatto. Desdemona supplica Otello. Uccidetemi domani. Lasciatemi vivere ancora questa notte. È il culmine della violenza del teatro elisabettiano, l’implorazione più toccante dell’intera letteratura inglese. In sala nessuno si alza, nessuno se ne va. Ci troviamo davanti a un genere di approvazione che non ha bisogno di indagini di mercato, di episodi pilota, di questionari di gradimento. Decisamente, Shakespeare non era di questo mondo…
Dovresti venire a bere qualcosa da me, disse Una guardando l’orologio. Questa sera, dopo cena.
Gordon annuì.
Lei scese dall’auto e attraversò la strada nella piena luce del giorno.
Se l’anima potesse reincarnarsi, pensò Gordon, probabilmente non sceglierebbe un certo genere di bellezza o di storia familiare, ma un corpo che le consentisse di camminare nel modo che le è più naturale, con un ritmo che non sarebbe che quello, in tutte le vite e in ogni tempo.
Allora ogni Una si rivelerebbe nel passo.
Ogni Una manifesterebbe un’eleganza spedita e una sottile frenesia.


ESCAPOLOGIA
Nella tradizione dell’escapologia è noto un numero di illusionismo in cui l’artista attraversa una parete con la grazia di un ectoplasma. Il passaggio del corpo è così fluido da lasciare solo una debole traccia negli occhi degli spettatori. In numerose varianti l’illusionista è incatenato all’interno di vasche piene d’acqua, rinchiuso con una camicia di forza a doppia cucitura in celle, botti, bauli, stanze, gabbie. In altre accede a un fondale dipinto, di ambientazione Settecentesca, usa oggetti disegnati (sedie, pettini, samovar) e, appiattito in due dimensioni, si cambia di abito (anche quello un disegno) per ripresentarsi sul palco con una parrucca alla Robespierre.
Ma lo spettacolo che davvero comporta l’illusione più sublime è quello di far affiorare su una parete, o su un soffitto, una folla di esseri animati, umani e animali. Un sottile margine di imprevedibilità comporta che, a volte, una di quelle creature entri accidentalmente nella dimensione reale, determinando un effetto escapologico del tutto involontario.


Vi lascio infine il comunicato stampa:
“Fulgore della notte”: il romanzo d’esordio di Omar Viel in libreria dal 30 settembre
per Adiaphora Edizioni

«Un libro di magia, e la magia è la scrittura avvol­gente. Se entri, preparati a fare i conti con il mistero e la prepotenza dei miracoli. Se hai anche la fortu­na di uscirne,
torni a casa con un sorriso.»
Gian Luca Favetto


“Fulgore della notte” è il titolo del romanzo d’esordio di Omar Viel, disponibile nelle librerie e negli store online dal 30 settembre per Adiaphora Edizioni (pp. 212, euro 16,00 - eBook euro 3,99).

Sullo sfondo di un’incantevole Bristol e dell’insaziabile Londra, Viel – finalista del Premio Italo Calvino nel 1992 e autore di racconti apparsi su “Nazione Indiana”, “Nuova Prosa” e nell’antologia Veni­se, collection Bouquins, pubblicata dall’editore francese Robert Laffont – narra con la sua prosa visionaria il viaggio surreale e magnifico della famiglia Wilson, tra i versi immortali di Blake, Keats e Shelley. Un viaggio fatto di incontri bizzarri con personaggi eterei, in equilibrio tra il mondo del visibile e quello dell’invisibile, tra l’universo tangibile e quello dell’immaginazione. 

Il professor Gordon Wilson non si sarebbe dovuto trovare in quella strana casa. Inebriato dal fascino di una ragazza sconosciuta, così simile a sua moglie Una, provoca inavvertitamente un incendio; dalle fiamme, scivola nella realtà la sinuosa figura di una tigre. Gor­don, spaventato, fugge, lasciando la propria famiglia disorientata.


Sarà Liz, una delle figlie, a recarsi a Londra alla ricerca del padre: un vero e proprio passaggio di testimone tra il professore e la giovane musicista, che incontrerà sul suo percorso antichi prodigi che la condurranno a svelare i misteri degli Wilson. Nella simbologia della specularità, passato e presen­te si intrecciano dove nulla è certo e tutto è possibile: “Fulgore della notte” è un cammino esistenziale, fisico, letterario, con incursioni nel poetico. Un romanzo composito nel quale si innesta un generoso tributo al Romanticismo inglese, che invita a lasciar andare gli ormeggi della ragione per abbandonarsi al dominio del possibile. 


Molto interessante, non trovate?

Buona lettura!

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