Segnalazione:Apro gli occhi
Segnalazione:
Apro gli occhi
di
Dario Vergari
di
Dario Vergari
Dario Vergari
Buongiorno lettori,per Brè Edizioni vi segnalo il romanzo: "Apro gli occhi" di Dario Vergari.
Biografia:Dario
M. Vergari nasce a Pesaro. Dopo studi scientifici muove i primi passi nel mondo
artistico come compositore, tastierista e cantante del gruppo new wave The
Drivers, per poi intraprendere la strada del musicista solista. Esperto fotografo
e fin dai primordi dell’informatica appassionato di computer ed elaborazioni
grafiche, si dedica ai viaggi e alla conoscenza di altre culture. Nel 2015
pubblica per la Montag il romanzo distopico REVNION, nel 2020 viene rivisto e
ripubblicato con la Brè Edizioni, con la quale, nel 2019 aveva esordito con un
romanzo di narrativa del futuro: PhoeniX. Negli ultimi anni è stato occupato a
scrivere, parlare con i gatti, comporre musica e lavorare alla sua più grande
impresa, la propria famiglia.
CONTATTI
AUTOREINSTAGRAM
dario.vergari
Sinossi:Un
puzzle. Apro gli occhi è un romanzo puzzle, lo si capisce subito. Decine
di caselle, frammenti, vite, persone, vicende, misteri, delitti, morti che
diventano orrore puro, ma anche terrorismo, rivoluzioni, rivoluzionari, pazzi,
santi, brave persone e mostri umani.Dario
Vergari, con rara abilità, ci porta in un viaggio tra i misteri d’Italia,
vicende a tutti note che si mescolano tra fantasia e incubo, tra realtà e
ossessioni in grado di portare alla pazzia i protagonisti di questo giallo
horror. Aprite gli occhi, tutto sta per accadere!
Eccovi anche un estratto:Lo scheletro di
Cesare si sveglia correndo nel bosco buio, si tasta le gambe, le braccia, il
torace. Tutto regolare… ha un attimo di esitazione prima di portare le mani al
viso. Cosa succederebbe se un dito si conficcasse in un’orbita vuota? Continuerebbe
a urlare finché ha fiato, questo è certo. Per sua fortuna la faccia è ancora
lì, molliccia, stropicciata e sudata. Non è un bell’incontro con sé stessi di
primo mattino, ma quanto basta a capire di avere sognato, e di essere ancora
abbastanza vivo. La sua faccia allo specchio conferma l’impressione, nessun
morto potrebbe avere un aspetto più insalubre: occhi rossi, pelle flaccida,
doppio mento e barba ispida. Tira fuori la lingua e con la velocità di un
ramarro la ritrae disgustato. Si guarda la pancia che ormai da anni ha
rinunciato a contenere entro limiti dignitosi.«Che schifo
invecchiare» confessa al tubetto di dentifricio. Getta un’occhiata sospettosa
alla bilancia e poi con un piede le dà una spinta fino a rispedirla sotto il
mobiletto degli asciugamani.Occhio non vede,
pancia non duole.
Uscire dal vagone
ferroviario che ferma in Centrale, è come uscire da un’incubatrice incrostata
di sonno e catarro da fumatore. Respira una boccata d’aria gelida e dribbla la
folla per infilarsi veloce nella galleria della metropolitana.“Sono troppo
vecchio per fare questa vita” pensa scansando valige e
borsoni. Mancano solo centoquarantaquattro giorni alla fine di maggio.
All’inizio della temuta e agognata libertà. Scende a Missori, come sempre. Come
sempre al termine della scala che porta in piazza Velasca l’odore di cipolla che
proviene dalla vicina pizzeria gli travolge le narici, l’ombra della Torre gli
manda un brivido su per la schiena.«Salve, dottor
Serafini» gli fa il portiere. Cesare grugnisce qualcosa come al solito,
potrebbe anche recitare una preghiera o maledirlo in sumero. Quello non si
accorgerebbe della differenza, indaffarato com’è a sistemare le buste della
corrispondenza nel casellario alle sue spalle. Cesare sale in ascensore, è in
notevole ritardo e quando esce al nono piano spera di riuscire a timbrare e a svicolare
fino al proprio posto prima che lo Stroppanobili lo veda e si ricordi di avere
qualcosa di perfettamente inutile ma necessario da fargli fare. Tanto per
divertirsi a far valere il grado di superiore.Lo stanzone dei
comuni impiegati è vuoto. In giro nei corridoi non si vede anima viva, grave
indizio di qualcosa che è venuto a turbare i rituali tribali dell’ufficio.
Cesare tende l’orecchio, dalla stanza di Malerba, esce un vociare confuso.
Vorrebbe ignorarlo e andare a seppellirsi fra i suoi faldoni, tuffarsi nel
riportare cifre su colonne, calcolare percentuali e ammortamenti, interessi,
semplici e composti, ma sa che è meglio essere al corrente delle novità, prima
che qualche furbone sfrutti la sua ignoranza per, ben che vada, farsi gioco di
lui. Cesare è sì un pavido, ma se preso in giro reagisce, talvolta in modo
spropositato e inopportuno che lo fa sembrare ancora più strano di quel che è.
Grazie al suo autocontrollo capita di rado, ma capita.Entra nella stanza
di Malerba dove tutti parlano a voce bassa. Lo guardano di sottecchi ma nessuno
lo saluta. Cesare abbozza uno dei suoi rarissimi tentativi di togliersi
dall’imbarazzo facendo dello spirito.«Che succede, è
morto qualcuno?» domanda alla persona più vicina, la signorina Villani.Tutti si voltano
verso di lui, alcuni mascherano una risata, altri scuotono la testa in
disapprovazione, altri, maschi, si toccano le parti basse.La signorina
Villani dice: «Il commendator Carlomagno. Ieri notte. Un infarto si dice…» la
Villani sta continuando a parlare ma Cesare non ascolta più. Pensa al fu
direttore che da poco aveva offerto ai dipendenti della Finivel un generoso
pranzo a buffet degno di una corte di nobili e Re.Carlomagno Claudio
Fabio Massimo. Era andato in pensione esattamente una settimana addietro, dopo
quarant’anni vissuti da dirigente. Settantadue ore di lavoro alla settimana lo
avevano mantenuto in vita, dodici ore di lavoro al giorno, che tramutate in ore
di libertà lo avevano ammazzato in men che non si dica.Il chiacchiericcio
è ripreso, Cesare sente solo un fischio nella sua testa, quello del rapido che
sta per arrivare, prossima fermata 31 maggio. Sarà di certo in orario.Si avvia verso la
sua scrivania, guarda la pila di pratiche da evadere con occhi diversi. Non più
come medicina che dà un senso alle giornate, ma come un veleno omeopatico che
anno dopo anno gli è entrato nelle ossa, mellifluo e infido. Nondimeno si tuffa
nel lavoro, cos’altro potrebbe fare?È talmente immerso
nei conti che la voce di Stroppanobili lo fa sobbalzare sulla sedia, ha sempre
il brutto vizio, sicuramente calcolato, di avvicinarsi di soppiatto alle spalle
dei dipendenti.«Dio pazzo.
Serafini ti rendi conto? Sei qui che lavori aspettando solo il giorno in cui
potrai goderti la pensione e poi…» si passa una mano all’altezza della
carotide, che nel suo caso è un gozzo prominente da tacchino «poi ti ritrovi
sotto qualche metro di terra senza neanche avere fatto la metà delle cose che
volevi.»Cesare alza la
testa dalle carte e lo guarda, vorrebbe pestargli un piede, o dargli un calcio
negli stinchi. Qualsiasi cosa per togliergli quel ghigno dalla faccia.«Meno male che io,
gli sfizi che voglio togliermi, me li tolgo subito. Chi gh’ha temp, che’l
speta minga temp, Serafini. Ricordatelo eh, prima che diventi vecchio.»Se ne va ridendo,
un istante prima che Cesare perda davvero il controllo sui suoi piedi.La signorina
Villani nota la sua espressione e lo raggiunge reggendo al petto un voluminoso
faldone, se lo sistema sull’incavo del braccio quasi volesse allattarlo.«Ci verrai vero ai
funerali domani? Ci saranno tutti, dicono che verrà anche il Pillitteri e il
Craxi, ma io non credo. Inizieranno a San Nazaro, alle otto di mattino.
Pover’uomo, dopo aver dato la vita per il lavoro non gli era rimasto più niente
per cui vivere. Se almeno avesse avuto moglie, o figli. Ma dove lo avrebbe
trovato il tempo? Era così operoso, pover’uomo…»Pover’uomo per
modo di dire, pensa Cesare. Si vociferava di un paio di ville a Cortina, una a
strapiombo sul mare all’Argentario, una residenza a Favignana che avrebbe fatto
invidia a un’aristocratica domus romana, per numero di stanze, piscine, terme,
e servitori. Oltre naturalmente alla residenza milanese, degna di un uomo nella
sua posizione.La signorina
Villani continua a parlare ma Cesare non ascolta, si limita ad annuire perché
sa che questo basta a contentarla. Ha parlato di San Nazaro, dove lavora il
tipo della pratica 283/92. Sarà la terza volta in pochi giorni che si incrocia con
lui, dopo il primo incontro ufficiale per la richiesta di un prestito e
l’incontro casuale in macchina.
Molto interessante, voi lo leggerete?
Buona lettura!
Buongiorno lettori,
Biografia:
Dario
M. Vergari nasce a Pesaro. Dopo studi scientifici muove i primi passi nel mondo
artistico come compositore, tastierista e cantante del gruppo new wave The
Drivers, per poi intraprendere la strada del musicista solista. Esperto fotografo
e fin dai primordi dell’informatica appassionato di computer ed elaborazioni
grafiche, si dedica ai viaggi e alla conoscenza di altre culture. Nel 2015
pubblica per la Montag il romanzo distopico REVNION, nel 2020 viene rivisto e
ripubblicato con la Brè Edizioni, con la quale, nel 2019 aveva esordito con un
romanzo di narrativa del futuro: PhoeniX. Negli ultimi anni è stato occupato a
scrivere, parlare con i gatti, comporre musica e lavorare alla sua più grande
impresa, la propria famiglia.
CONTATTI
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INSTAGRAM
dario.vergari
Sinossi:
Un
puzzle. Apro gli occhi è un romanzo puzzle, lo si capisce subito. Decine
di caselle, frammenti, vite, persone, vicende, misteri, delitti, morti che
diventano orrore puro, ma anche terrorismo, rivoluzioni, rivoluzionari, pazzi,
santi, brave persone e mostri umani.
Dario
Vergari, con rara abilità, ci porta in un viaggio tra i misteri d’Italia,
vicende a tutti note che si mescolano tra fantasia e incubo, tra realtà e
ossessioni in grado di portare alla pazzia i protagonisti di questo giallo
horror. Aprite gli occhi, tutto sta per accadere!
Eccovi anche un estratto:
Lo scheletro di
Cesare si sveglia correndo nel bosco buio, si tasta le gambe, le braccia, il
torace. Tutto regolare… ha un attimo di esitazione prima di portare le mani al
viso. Cosa succederebbe se un dito si conficcasse in un’orbita vuota? Continuerebbe
a urlare finché ha fiato, questo è certo. Per sua fortuna la faccia è ancora
lì, molliccia, stropicciata e sudata. Non è un bell’incontro con sé stessi di
primo mattino, ma quanto basta a capire di avere sognato, e di essere ancora
abbastanza vivo. La sua faccia allo specchio conferma l’impressione, nessun
morto potrebbe avere un aspetto più insalubre: occhi rossi, pelle flaccida,
doppio mento e barba ispida. Tira fuori la lingua e con la velocità di un
ramarro la ritrae disgustato. Si guarda la pancia che ormai da anni ha
rinunciato a contenere entro limiti dignitosi.
«Che schifo
invecchiare» confessa al tubetto di dentifricio. Getta un’occhiata sospettosa
alla bilancia e poi con un piede le dà una spinta fino a rispedirla sotto il
mobiletto degli asciugamani.
Occhio non vede,
pancia non duole.
Uscire dal vagone
ferroviario che ferma in Centrale, è come uscire da un’incubatrice incrostata
di sonno e catarro da fumatore. Respira una boccata d’aria gelida e dribbla la
folla per infilarsi veloce nella galleria della metropolitana.
“Sono troppo
vecchio per fare questa vita” pensa scansando valige e
borsoni. Mancano solo centoquarantaquattro giorni alla fine di maggio.
All’inizio della temuta e agognata libertà. Scende a Missori, come sempre. Come
sempre al termine della scala che porta in piazza Velasca l’odore di cipolla che
proviene dalla vicina pizzeria gli travolge le narici, l’ombra della Torre gli
manda un brivido su per la schiena.
«Salve, dottor
Serafini» gli fa il portiere. Cesare grugnisce qualcosa come al solito,
potrebbe anche recitare una preghiera o maledirlo in sumero. Quello non si
accorgerebbe della differenza, indaffarato com’è a sistemare le buste della
corrispondenza nel casellario alle sue spalle. Cesare sale in ascensore, è in
notevole ritardo e quando esce al nono piano spera di riuscire a timbrare e a svicolare
fino al proprio posto prima che lo Stroppanobili lo veda e si ricordi di avere
qualcosa di perfettamente inutile ma necessario da fargli fare. Tanto per
divertirsi a far valere il grado di superiore.
Lo stanzone dei
comuni impiegati è vuoto. In giro nei corridoi non si vede anima viva, grave
indizio di qualcosa che è venuto a turbare i rituali tribali dell’ufficio.
Cesare tende l’orecchio, dalla stanza di Malerba, esce un vociare confuso.
Vorrebbe ignorarlo e andare a seppellirsi fra i suoi faldoni, tuffarsi nel
riportare cifre su colonne, calcolare percentuali e ammortamenti, interessi,
semplici e composti, ma sa che è meglio essere al corrente delle novità, prima
che qualche furbone sfrutti la sua ignoranza per, ben che vada, farsi gioco di
lui. Cesare è sì un pavido, ma se preso in giro reagisce, talvolta in modo
spropositato e inopportuno che lo fa sembrare ancora più strano di quel che è.
Grazie al suo autocontrollo capita di rado, ma capita.
Entra nella stanza
di Malerba dove tutti parlano a voce bassa. Lo guardano di sottecchi ma nessuno
lo saluta. Cesare abbozza uno dei suoi rarissimi tentativi di togliersi
dall’imbarazzo facendo dello spirito.
«Che succede, è
morto qualcuno?» domanda alla persona più vicina, la signorina Villani.
Tutti si voltano
verso di lui, alcuni mascherano una risata, altri scuotono la testa in
disapprovazione, altri, maschi, si toccano le parti basse.
La signorina
Villani dice: «Il commendator Carlomagno. Ieri notte. Un infarto si dice…» la
Villani sta continuando a parlare ma Cesare non ascolta più. Pensa al fu
direttore che da poco aveva offerto ai dipendenti della Finivel un generoso
pranzo a buffet degno di una corte di nobili e Re.
Carlomagno Claudio
Fabio Massimo. Era andato in pensione esattamente una settimana addietro, dopo
quarant’anni vissuti da dirigente. Settantadue ore di lavoro alla settimana lo
avevano mantenuto in vita, dodici ore di lavoro al giorno, che tramutate in ore
di libertà lo avevano ammazzato in men che non si dica.
Il chiacchiericcio
è ripreso, Cesare sente solo un fischio nella sua testa, quello del rapido che
sta per arrivare, prossima fermata 31 maggio. Sarà di certo in orario.
Si avvia verso la
sua scrivania, guarda la pila di pratiche da evadere con occhi diversi. Non più
come medicina che dà un senso alle giornate, ma come un veleno omeopatico che
anno dopo anno gli è entrato nelle ossa, mellifluo e infido. Nondimeno si tuffa
nel lavoro, cos’altro potrebbe fare?
È talmente immerso
nei conti che la voce di Stroppanobili lo fa sobbalzare sulla sedia, ha sempre
il brutto vizio, sicuramente calcolato, di avvicinarsi di soppiatto alle spalle
dei dipendenti.
«Dio pazzo.
Serafini ti rendi conto? Sei qui che lavori aspettando solo il giorno in cui
potrai goderti la pensione e poi…» si passa una mano all’altezza della
carotide, che nel suo caso è un gozzo prominente da tacchino «poi ti ritrovi
sotto qualche metro di terra senza neanche avere fatto la metà delle cose che
volevi.»
Cesare alza la
testa dalle carte e lo guarda, vorrebbe pestargli un piede, o dargli un calcio
negli stinchi. Qualsiasi cosa per togliergli quel ghigno dalla faccia.
«Meno male che io,
gli sfizi che voglio togliermi, me li tolgo subito. Chi gh’ha temp, che’l
speta minga temp, Serafini. Ricordatelo eh, prima che diventi vecchio.»
Se ne va ridendo,
un istante prima che Cesare perda davvero il controllo sui suoi piedi.
La signorina
Villani nota la sua espressione e lo raggiunge reggendo al petto un voluminoso
faldone, se lo sistema sull’incavo del braccio quasi volesse allattarlo.
«Ci verrai vero ai
funerali domani? Ci saranno tutti, dicono che verrà anche il Pillitteri e il
Craxi, ma io non credo. Inizieranno a San Nazaro, alle otto di mattino.
Pover’uomo, dopo aver dato la vita per il lavoro non gli era rimasto più niente
per cui vivere. Se almeno avesse avuto moglie, o figli. Ma dove lo avrebbe
trovato il tempo? Era così operoso, pover’uomo…»
Pover’uomo per
modo di dire, pensa Cesare. Si vociferava di un paio di ville a Cortina, una a
strapiombo sul mare all’Argentario, una residenza a Favignana che avrebbe fatto
invidia a un’aristocratica domus romana, per numero di stanze, piscine, terme,
e servitori. Oltre naturalmente alla residenza milanese, degna di un uomo nella
sua posizione.
La signorina
Villani continua a parlare ma Cesare non ascolta, si limita ad annuire perché
sa che questo basta a contentarla. Ha parlato di San Nazaro, dove lavora il
tipo della pratica 283/92. Sarà la terza volta in pochi giorni che si incrocia con
lui, dopo il primo incontro ufficiale per la richiesta di un prestito e
l’incontro casuale in macchina.
Molto interessante, voi lo leggerete?
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