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Ilaria Vecchietti, autrice del racconto "L'ultima chance...", e dei romanzi fantasy "La Libertà figlia del Diavolo", "L'Isola dei Demoni" e "L'Imperatrice della Tredicesima Terra". E altri racconti pubblicati in raccolte.

sabato 22 settembre 2018

Segnalazione: Singing Sands La sabbia che canta Volume 1 di Amyshay

Segnalazione:

Singing Sands

La sabbia che canta

Volume 1

di

Amyshay


Buongiorno lettori,
eccomi con la segnalazione di un nuovo romanzo molto interessante: "Singing Sanda - La sabbia che canta Volume 1" di Amyshay.



Biografia:
Sono di origini italiane, uso lo pseudonimo Amyshay per i miei libri. Nata come disegnatrice dopo aver frequentato la scuola d'arte e svolto diversi lavori nel campo, oltre che alcune mostre di quadri, ho sentito il bisogno di raccontare di più e non solo con le immagini.



Genere: Romanzo urban fantasy
Editore: Self publishing
Data di pubblicazione: 5 luglio 2018
Numero pagine: 319
Prezzo ebook: 2,99€
Prezzo cartaceo: 15,99€
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Sinossi:

Adesso.
Ogni estate è sempre la stessa storia: quando Dayaniel e il suo gruppo approdano a Mackinaw City, portando con loro chiasso e maleducazione, Alice sa che dovrà dileguarsi insieme all'amica Aylen se non vuole essere vittima dei loro cattivi scherzi. Ma quest'anno Alice decide che sarà diverso e che non si nasconderà come sempre. Scopre così uno dei tanti locali sul lago Huron, il Singing Sands, un luogo che subito l'attrae per la simpatia e la particolarità dei suoi frequentanti.
Tuttavia, ben presto strani fenomeni iniziano a circondarla: sogni inquietanti dove un imponente cancello nero si staglia davanti a lei, qualcuno che la spia nell'oscurità e persone che scompaiono nel momento in cui le incontra per sbaglio. 

E quando Singing Sands rivela la sua vera natura, per Alice non resta che gettare le armi e arrendersi all'inspiegabile.
Perché il capobranco Dayaniel sembra odiarla ma allo stesso tempo desiderarla come non mai? E chi è davvero Aylen, l'amica e sostegno da tantissimi anni?
Sining Sands: solo lì Alice otterrà le risposte che cerca.

Prima.
Quando Alice incontra Dayaniel, sa che è amore a prima vista, e sa di essere contraccambiata. La loro storia impiega poco a decollare, per la gioia dei genitori di Alice e degli abitanti del villaggio in cui vivono.

Tuttavia Dayaniel e il suo gruppo racchiudono un segreto: un segreto che, forse, cambierà la vita di Alice.

E quando lei, dopo averlo scoperto, scopre di aspettare un figlio, e si sente minacciata dal fratello violento, capirà che dovrà diventare parte del segreto, per potersi difendere e difendere le persone che ama.

Due vicende parallele legate da un unico filo rosso: la sabbia che canta e che, con la sua melodia, rivela una storia di amore e tradimento, antica e infinita. Una storia che non terminerà mai, fino a che Alice, l'unica Alice, non rimedierà agli sbagli che ha compiuto sotto l'inganno di un essere diabolico.

Intrecciate un ramo di edera e uno di agrifoglio per tenere lontani gli spiriti maligni, e avventuratevi nei misteri di Singing Sands. 



Eccovi anche un estratto:
Si racconta che lo gnomo Monachicchio sia in realtà un bambino morto prima di ricevere il battesimo.
... ma è proprio così?
E se il Monachicchio fosse più di un semplice folletto burlone?
Se il suo scopo non fosse solo divertirsi alle spalle del povero malcapitato che lo ha accolto?
Io so che il Monachicchio è più di un semplice e antipatico gnomo.
E adesso ve lo svelerò.
Prima di ascoltare le mie parole, però, vi consiglio di appendere sulla soglia della vostra casa un ramo di edera e uno di agrifoglio: dicono tenga lontani gli spiriti maligni.

PROLOGO

Incurante del fondo ghiacciato, schiacciai l’acceleratore fino alla fine. Il veicolo scodò e divenne ingovernabile, danzando in caotici girotondi.
Venni sbattuta di lato e picchiai la testa contro il vetro della portiera; con un sinistro scricchiolio, alcune crepe disegnarono saette che ne ricoprirono la superficie.
L’auto ruotava su se stessa in modo disordinato, ma riuscii lo stesso a scorgere, a un lato della strada, alcune persone che riconobbi subito. Poi la mia prigione rombante lasciò l’asfalto, sobbalzando su alcune zolle di terra ricoperte di neve fresca, franò contro il guardrail e lo sfondò.
La rocambolesca corsa finì dentro il lago Huron.
Feci appena in tempo ad avvertire il ghiaccio che lo ricopriva rompersi nell’impatto, poi tutto si oscurò e l’acqua gelida invase in poco tempo l’abitacolo.

PROLOGO, UNO

Il tempo si riavvolse come la bobina di un film, e rivissi l’impatto con l’acqua.
Il muso della mia macchina scomparve, muovendo attorno a sé alte onde mescolate a pezzi di ghiaccio spessi e taglienti.
Il parabrezza si frantumò, vetri appuntiti mi ferirono il viso e mi lacerarono i vestiti. Non ebbi nemmeno il tempo di prendere il respiro che l’acqua mi avvolse nel suo glaciale abbraccio.
In stato di semincoscienza a un passo dalla morte, galleggiai inerme fino a raggiungere lo squarcio sul vetro e ne uscii lasciando alle mie spalle l’automobile, che continuò a sprofondare fino ad adagiarsi sul fondale, incastrandosi fra le rocce.
Sembrava incredibile, ma i miei occhi vitrei scorsero i fiocchi di neve posarsi sulla superficie lontana. La pallida luna li illuminava appena, emanando un lieve alone tra alcune crepe di nuvole.

PROLOGO 2

Priva di forze uscii dal lago, gli abiti fradici e pesanti come macigni. Incespicando, risalii il ciglio della strada. Traballai, caddi e mi rialzai. Caddi di nuovo e di nuovo mi rimisi in piedi. Mi pulii il viso dall’acqua e dal sangue che scivolava sulle guance.
Una volta riacquistato l’equilibrio, correre mi fu più semplice di quanto pensassi, ma non sapevo se fosse perché ero di nuovo in piedi o per via della forza di volontà e disperazione.
Dovevo trovare quel posto, e non riuscivo a pensare ad altro che inoltrarmi nel bosco oltre la strada asfaltata.
Mi intrufolai fra la disordinata vegetazione ricoperta di ghiaccio e brina, procedendo tra le sterpi addormentate, succubi di quell’inverno polare. Continuai, incurante dei primi segni di assideramento. La direzione era quella giusta.
Oltrepassai i cespugli di agrifoglio che avevano caratterizzato la mia incredibile storia e giunsi nella radura.
La fievole luce della luna illuminò alcune sagome. Con un ultimo e disperato sforzo, corsi verso di loro.
Due ragazzi e una ragazza. Uno procedeva a passo veloce verso l’altro, che era immobile e all’apparenza incurante del suo fare minaccioso. La giovane donna si trovava a metà strada fra i due, ma loro la ignorarono, come se non si fossero accorti della sua presenza.
A mano a mano che mi avvicinavo, nonostante fossi ormai a conoscenza della verità, rimasi ancora una volta meravigliata: i due ragazzi erano identici e la ragazza uguale a me. Solo in quel momento mi accorsi della somiglianza, nonostante i nostri numerosi incontri; solo in quel momento identificai in lei me stessa.
La vita scivolava via dal mio corpo ormai stremato, ma raccolsi le poche forze per poterli raggiungere. Inciampai, rovinando tra rami e neve; lei se ne accorse e mi guardò. No, non era proprio uguale a me: era molto più attraente.
Mi rialzai, vedendo che il ragazzo stava per raggiungere la sua copia perfetta. «Dayaniel, no» urlai, ma non sembrarono udirmi.
Delle pietre erano a terra, perfette, piatte, lisce e... taglienti.
Tutto accadde velocemente.
Ne afferrai una e, girandomi su me stessa, la lanciai. Caddi all’indietro senza distogliere lo sguardo dalla mia sosia.
Lei rimase alcuni istanti immobile, gli enormi e meravigliosi occhi sbarrati per la sorpresa, poi si portò le mani al collo, che in breve tempo si ricoprirono di sangue. Grandi gocce cremisi caddero sul manto candido della neve e la macchiarono. Il rosso acceso impallidì a poco a poco, diventando rosa tenue; il calore del sangue sciolse la neve, lasciando dei piccoli fori rotondi.
Dal profondo del bosco giunsero delle grida, lancinanti e rabbiose, ma non si trattava di un animale.
Lei si accasciò sulle ginocchia, fissandomi con espressione incredula ma non vedendomi veramente; forse era già morta.
Tuttavia fece male, fece davvero male vedere l’altra me guardarmi in quel modo, come se fosse stata appena tradita dalla sua stessa creatrice, sua madre, sua sorella, il suo tutto.
Cadde a faccia in giù, spegnendo ogni accusa. Non avrei potuto sopportarlo ancora per molto.
I due ragazzi si erano girati verso di noi, ma nei loro occhi non vi era nulla di quello che avevo visto in quelli di Enyel. Uno restò impassibile, osservandomi più incuriosito che colpito dal mio gesto, l’altro sembrò più disperato che inorridito. Scosse la testa, sussurrando un “no” pieno di significato.
«Alice, che cosa hai fatto?»
Non smise di scuotere il capo finché tutto per me divenne buio.

Dicono che nel momento della morte si ripercorra l’intera vita, e ciò accadde a Enyel, mentre il sangue fuoriusciva a fiotti dalla ferita che le avevo inflitto. Ogni istante vissuto, e poi sarebbe stata la fine. Per questo motivo i suoi attimi verso l’oblio divennero interminabili, ma non furono solo i momenti della vita appena trascorsa che vide...
 

PROLOGO 3

Nuovamente il nastro si riavvolse, e la osservai cadere piegando le ginocchia, una fine interminabile tanto per lei quanto per me.
Tutto successe al rallentatore e, mentre lei rovinava al suolo, fui io a ripercorrere ogni accadimento degli ultimi tempi, i quali erano valsi più di qualsiasi esistenza.
Rividi gli strani luoghi che durante i miei deliri erano diventati come una casa per me e che avevo imparato ad amare come se fossero stati realtà. Rividi ognuno di loro, ripercorsi tutte le loro parole e le loro rivelazioni.
Rividi ogni cosa in sequenza, fino a che Enyel non raggiunse il suolo e morì.
 
Goccia, gocciolina
che dal lago si avvicina
Scivola sul mio dito
che l’aggira divertito
Si ferma sulla punta
che ruzzolando ha raggiunta
Scivola ancora e poi si allunga
avvicinandosi alla sabbia come una prolunga
Poi si stacca e cade
bagna i granelli e tutto invade
Tinge la sabbia di un nero innaturale
trasformando la realtà in qualcosa di brutale
Vi nasconde al di sotto i miei segreti
le sussurro di custodirli come fossero amuleti
Così in un giorno lontano
ciò che è stato sacro si unirà al profano
Proprio laggiù in quel luogo nascosto
dove dai ghiacci perenni
e, forse, dopo molti millenni
i miei segreti libererai
affidandoli al vento e mai più tornerai.
 

ALICE, ADESSO  

“Quest’anno il caldo è davvero insopportabile” pensai guardando l’acqua del lago brillare sotto i raggi del sole.
Di lì a poco il riverbero sarebbe diventato così insopportabile da rendere impossibile stare nella piccola spiaggia, anche se riparati. L’unica via di scampo era lo stabile vicino, dove vi erano un bar e un piccolo negozio di manifatture create dai Nativi americani del posto.
Quella mattina ero stata previdente e avevo già occupato il tavolino all’ombra dei portici per me e la mia amica.
Mi ero svegliata prestissimo, come accadeva spesso ultimamente; sogni dimenticati all’istante appena aprivo gli occhi avevano disturbato il mio sonno. Non erano proprio incubi, diciamo piuttosto che erano vividi, come reali; potevo ricordarne le sensazioni come il calore, l’odore stantio misto a quello dell’agrifoglio e il mio stato d’animo tutt’altro che tranquillo.
Ero solita trascorrere il periodo estivo in un grazioso appartamento situato al terzo piano in una palazzina di quattro unità situata lungo la N Huron Ave, a pochi passi dal lago e dalla spiaggia. La costruzione era la terza di altre due identiche all’interno di un villaggio tra i tanti di Mackinaw City, una meravigliosa cittadina a ridosso del lago Huron, in Michigan. La casa, ereditata da mia madre, era appartenuta al nonno, che aveva trascorso tutta la vita in quel posto. Da quando era morto, io e lei vi avevamo trascorso ogni vacanza estiva, lasciandoci alle spalle i lunghi inverni di Melvindale, sobborgo di Detroit distante cinque ore da Mackinaw.
Mio padre e mio fratello, ma soprattutto mio padre, erano piuttosto refrattari nei confronti di luoghi vacanzieri come quelli. Mio fratello era il più giustificato: all’epoca io avevo quasi diciotto anni e lui sei più di me e, com’è ovvio, preferiva compagnie femminili diverse, oppure spassarsela con gli amici invece che con noi. La situazione non mi era mai pesata: io e mamma siamo sempre state amiche e spesso complici, e la presenza di quei due non avrebbe reso migliore la nostra estate, rischiando anzi di rovinarla. Avevamo così libertà assoluta per un paio di mesi, lei con le sue amiche e io con la mia unica amica: Aylen.
Mi guardai in giro, mentre l’ansia cresceva a poco a poco: era il weekend e da qualche tempo a quella parte non amavo più quei giorni. Non amavo i numerosi villeggianti che si riversavano come formiche sulla spiaggia con il primo traghetto della giornata, ma non erano loro la causa principale della mia angoscia crescente. Il disappunto non era un’esclusiva mia e della mia amica: buona parte delle persone che, come noi, trascorrevano le giornate in quel posto, non apprezzava quella novità.
Da diverse estati, sul litorale era comparso uno strano ma sgradito gruppo di ragazzi non proprio tranquilli. Si diceva in giro che provenissero da Encore. Erano capitati all’improvviso, facendosi subito notare con i loro modi scortesi, provocatori e spesso offensivi.
Durante quei due lunghissimi e spiacevoli giorni, la maggioranza degli adolescenti e degli adulti, habitué della spiaggia, si dileguava, per poi tornare quando, finalmente, il gruppo di Encore se ne andava.
Sembrava che uno dei loro passatempi preferiti fossimo proprio io e Aylen.
Il “gruppo”, come lo avevamo denominato, era composto di ragazzi e ragazze più o meno della nostra età o poco più grandi. Erano tutti splendidi e perfetti e io e la mia amica, munite di un’esteriorità decisamente normale, non potevamo evitare ogni volta di sentirci schiacciate da quella perfezione, che tra l’altro non mancavano mai di farci notare. Credo che quella consapevolezza non avesse fatto altro che aumentare le nostre insicurezze, rendendoci un ottimo pasto per quegli squali.
La sera della domenica era diventata un miraggio: rimanevamo in trepidante attesa fino all’ora in cui l’ultimo traghetto della giornata li avrebbe imbarcati e portati via, e per una settimana sarebbe regnata la pace. Mi veniva sempre da ridere nel vedere la nostra spiaggia a poco a poco riprendere vita e riempirsi nuovamente di ragazzi “normali”, con cui potevi scambiare due chiacchiere senza essere insultata o presa in giro quando, per caso, passavi davanti a loro.
Il fine settimana di cui sto per raccontare fu particolarmente movimentato: sembrava quasi che quel caldo inusuale avesse causato danni irreversibili alla testa di quella gente, trasformandola in una sorta di macchine da guerra nei confronti di chiunque osasse calpestare i loro piedi.

«Mmm... stanno già arrivando.»
Sobbalzai, non aspettandomi di udire la voce alle mie spalle. Aylen spostò la sedia lontano dal piccolo tavolino e ci si lasciò cadere sopra, sbuffando.
«Ehi, buongiorno.» Le allungai la tazza ancora mezza piena di caffè.
«Mmm» mugugnò in segno di saluto, prendendola e sorseggiandone un po’.
Potevo capirla: ci aspettavano due giornate di esilio, costrette a stare lontane dai posti che frequentavamo di solito per evitare situazioni poco piacevoli, e purtroppo questo valeva anche per la sera.
«Dai, è ancora lontano» le dissi guardando l’orizzonte. I tre traghetti non erano altro che dei puntini, e con il loro lento incedere avrebbero impiegato diversi minuti prima di arrivare.
«Sì, ma non è giusto, Alice.»
«Lo so, ma siamo qui e non possiamo farci nulla, tranne che fare a botte con loro.» Cercai di sdrammatizzare con una risatina nervosa.
«Non male come idea. Questo non è il loro posto.» Aylen bevve un altro sorso di caffè. «Soprattutto quel biondo arrogante non dovrebbe trovarsi con loro.»
Il biondo in questione era una sorta di capogruppo, un leader all’interno del clan: si capiva da come gli altri pendevano dalle sue labbra, da come si atteggiava e trascinava gli amici in qualsiasi attività, anche quelle non proprio lecite.
Mi agitai sulla sedia: sentire nominare quel ragazzo mi causava sempre turbamento, e non era solo dovuto al fatto che ci avevano preso di mira. Lo avevo notato sin da quando avevano deciso di invadere la nostra spiaggia. Nonostante avesse dei validissimi antagonisti in fatto di fascino, ai miei occhi spiccava sopra tutti. Ero perdutamente attratta da lui, in una sorta di disordinato rimescolio di sentimenti contrastanti: odio, attrazione, paura e senso di colpa. Naturalmente non avevo alcuna speranza con lui: innanzitutto sembravo la sua punchball preferita nei momenti di noia; in secondo luogo la competizione con la parte femminile dell’odiata combriccola era persa in partenza.
Se solo Aylen avesse intuito il mio piccolo segreto, non ne sarei mai uscita sana: la mia amica non avrebbe mai accettato quella debolezza nei confronti di una persona capace solo di disprezzarmi. Avevo così deciso di tenere tutto per me, nascosto nel profondo, da tirare fuori nei momenti in cui ero sola e potevo fantasticare liberamente.
Conoscevo Aylen da ben nove anni, esattamente da quando mia madre, con il cuore a pezzi, si era presa in carico la casa del nonno, ristrutturandola e arredandola a nuovo. L’avevo notata già dai primi giorni in cui mi crogiolavo al sole in riva al lago: era solitaria quanto me e forse anche di più. Non parlava mai con nessuno della sua età e avevo sospettato perfino che fosse in vacanza da sola, visto che nemmeno i suoi genitori si vedevano in giro. In seguito avevo saputo che anche lei era lì con la madre, che però preferiva frequentare un altro posto invece del nostro.
Ci eravamo lanciate sguardi amichevoli per diverse settimane prima di prendere coraggio e avvicinarci. Aveva fatto lei il primo passo, raggiungendomi al mio ombrellone e chiedendomi se mi andasse di bere una bibita. Ne ero stata felice: l’isolamento non mi è mai dispiaciuto, ma le giornate stavano diventando noiose.
Da allora non ci eravamo più separate, scoprendoci molto simili per certi versi perché ci piacevano le stesse cose: la tranquillità, le passeggiate in riva al lago, un buon libro, le sere passate a guardare un film.
Aylen era graziosa, nonostante un fisico morbido e l’altezza inferiore alla norma. Il suo punto di forza erano gli enormi occhi blu mare, splendido ornamento in un viso da bambina dalla bocca per natura rosso ciliegia.
Purtroppo il nostro rapporto aveva una nota negativa: la mancanza di continuità. Durante l’inverno vivevamo lontane e, visto il clima rigidissimo di quei mesi unito agli impegni della scuola, non riuscivamo a vederci e comunicare se non tramite internet.
 
La sirena del traghetto annunciò il suo arrivo, distogliendomi dalle mie considerazioni e strappando un ringhio alla mia amica, che ebbe il mio stesso pensiero.
“Ci siamo.”
Giocherellai con un ciuffo di capelli. «Se provassimo a non scappare, limitandoci a ignorarli?»
«Alice, credo che non aspettino altro.»
«Però se scappiamo è come se fosse un invito per loro.»
«Non intendo fargliela vincere facile a quei pezzi di cretini.»
Decisi di non insistere. Non mi piaceva fuggire di fronte ai problemi, ma non si trattava più di me soltanto: eravamo in due e dovevo rispettare Aylen.
Dopo poco, il chiasso inconfondibile annunciò che erano approdati sulla nostra isola felice. Schiamazzi, urla e parole non del tutto raffinate riempirono l’inconsueta aria torrida di Mackinaw City, e iniziò il solito fuggi fuggi di adolescenti che, come noi, sapevano che da quel momento la pace era finita. A nulla servirono (nemmeno in passato) le proteste degli adulti: il fare poco raccomandabile di quelle persone consigliava di non insistere per non andare incontro ai guai; non ci avrebbero pensato due volte a vendicarsi.
I teppisti non ci avevano ancora viste, così anche noi ci dileguammo velocemente, appostandoci nel solito angolo verde allestito dai padroni dello stabile. Grazie ai cespugli e a qualche palma, potevamo osservarli da lontano senza essere viste.
Il capobranco prese posto al tavolino del bar, ora diventato troppo piccolo rispetto alla mole di ragazzi che lo stava accerchiando.
Come ogni volta, ebbi un sussulto nel vederlo, accompagnato da quella strana sensazione allo stomaco che sopraggiunge solo in un caso: quando sei innamorato. Arrossii, mi sembrava che Aylen potesse avvertire le mie emozioni. Lo desideravo al punto da non poter più fare a meno della sua presenza, e me ne vergognai.
I suoi capelli, biondo grano e lunghi, erano legati in una coda che cadeva fluente oltre le spalle; il suo sguardo azzurro ti tagliava a metà e ti scrutava al punto da metterti a nudo, impedendoti di pensare per paura potesse leggerti dentro; la bocca era carnosa e perennemente distesa in un ghigno, che alle volte appariva come un sorriso, altre come un’ironica presa in giro.
Era assurdo, odiare la sua presenza e allo stesso tempo sentirsi mancare l’aria durante la sua assenza.
«Ti sei incantata?» Aylen mi diede una gomitata, il tono acido.
«Come?» Sobbalzai, confusa, sperando non si fosse accorta che lo stavo fissando.
Brontolò parole incomprensibili, agitandosi sulla sedia e dandomi la schiena. Sì, probabilmente si era accorta di qualcosa.
«Non so tu, ma io ho sete» azzardai all’improvviso.
Per qualche istante mi guardò come se non comprendesse le mie parole. «Anche io. Andiamo da qualche parte.»
«No, in realtà vorrei bere qualcosa qui, nella mia spiaggia.» Le parole mi erano uscite poco convinte.
Aylen strabuzzò gli occhi blu mare. «Mi stai dicendo che sei intenzionata a passare davanti a loro?»
«È la mia spiaggia.»
«Non durante il weekend» mi sfidò, sostenendo il mio sguardo.
Non prestandole ascolto mi alzai dalla sedia e m’incamminai verso il bar. Senza avere altra scelta, mi trotterellò dietro fino a mettersi al mio fianco. La udii ridacchiare, e poco dopo mi unii a lei, tentando inutilmente di non essere sentita e soprattutto vista da loro; sarebbe stato un ottimo appiglio per cominciare a massacrarci.
Era questo il bello del rapporto tra me e Aylen: anche nella tragedia riuscivamo a trovare sempre il modo di farci due risate.
Ci avvicinammo al gruppo, spalle dritte e piglio combattivo, decise a non cedere di fronte a qualsiasi tentativo di scoraggiarci, o peggio ancora; entrammo nel bar che sembravamo due manici di scopa. Ridicole. Una volta giunte al bancone, i nostri nervi si rilassarono e riprendemmo una postura quanto meno normale. Guardammo oltre la vetrata. Non eravamo certe che il ritorno sarebbe andato bene quanto l’andata; stranamente non era arrivato alcun commento sgradevole, ma tanta fortuna non poteva durare. Ordinammo da bere.
Ero ferma con il bicchiere di succo d’arancia stretto in mano, indecisa se darmela a gambe passando per l’uscita secondaria che dava sulla spiaggia o affrontare di nuovo il mio peggiore incubo, quando qualcuno mi urtò in malo modo, al punto che metà del succo fuoriuscì. Feci per voltarmi aggressiva verso il maleducato che mi aveva colpita, ma mi trovai davanti Enyel e le sue due amichette. Conoscevo il suo nome perché i molesti fuori dal bar la chiamavano spesso. Da quanto era bella, superava ogni possibile sogno di qualsiasi ragazza e ragazzo.
Si girò verso di me, chiaramente intenzionata ad avviare un litigio. Invase il mio campo vitale, rasente al mio viso al punto tale che annusai il profumo al cocco dei suoi lunghi capelli ramati. Mi scrutò fredda e le sue labbra rosse e carnose si socchiusero in un sorriso seducente e provocatorio. «Che cazzo vuoi?»
Con mia enorme sorpresa Aylen intervenne, indicando la mia bibita riversa a terra. «L’hai urtata, potresti almeno chiedere scusa.»
«Be’, nanetta, era sulla traiettoria sbagliata.»
«Sei solo una stronza» rispose ancor più inaspettatamente Aylen.
“Ma sa cosa sta facendo?” pensai sbarrando gli occhi, presa dal panico.
Enyel si avvicinò e si chinò per guardarla in viso. «Stai attenta, sgorbio. Qui non c’è nessuno a difenderti.»
«Oh. Fatela finita» intervenni cercando di calmarle.
Le amiche di Enyel non facevano altro che ridere, e ciò mi innervosì. Afferrai Aylen per un braccio, trascinandola lontana dalla “dea”. «Dai, lascia perdere.»
Ma lei insistette, strappandomi un gemito: «Hai capito, stronza? Sei solo una stronza.»
Ora si sarebbe avviato un processo irreversibile, in cui io e Aylen saremmo state le vittime di una devastante battuta di caccia, me lo sentivo. Strattonai ancora più forte la mia amica, che finalmente si decise a lasciar perdere.
Enyel era poco convinta sul fatto di farcela passare liscia e sicuramente avrebbe avvisato gli altri, che sarebbero intervenuti.
Non ci rimase che l’uscita secondaria, quella che dava sulla spiaggia e dopo pochi passi verso le acque del lago Huron. Saremmo potute scappare da lì, dirigendoci verso il centro “via mare”, per così dire, sempre se non avessero deciso di seguirci.
«Ma sei scema? Che cosa ti è venuto in mente?» Accelerai il passo e versai a terra altro succo di arancia.
«Ma come? Tu puoi sfidarli e io no?» rispose Aylen, stranamente allegra.
«Sì, ma preferirei restare viva, cretina.»
Ridendo, raggiungemmo la seconda uscita e la calura ci avvolse subito, fastidiosa e opprimente; si appiccicava alla pelle come carta bagnata. La sabbia era bollente, difficoltosa da sopportare anche con le ciabattine.
Con una punta di rammarico guardai l’ombrellone dove si trovava mamma. Non potevamo andare da lei, l’avremmo messa in mezzo alle nostre faccende e non era giusto.
Una volta giunte sulla riva del lago, trovammo sollievo dentro l’acqua, piacevole e fresca. Mi guardavo spesso alle spalle, certa che Enyel aveva già raccontato tutto ai suoi amici, i quali, forse, non aspettavano altro che trascorrere la giornata insultando e torturando la nostra autostima, ma stranamente non c’era ancora nessuno.
«Stai tranquilla, non ci inseguiranno» mi disse Aylen. «Almeno per ora.»
«E tu come lo sai?» Pestai i piedi sulla sabbia. Avrei volentieri preso a calci quella stronza di Enyel.
«Secondo me non ci verranno dietro.»
«Se lo dici tu...»
La nostra passeggiata si prolungò, superando le aspettative. Avremmo dovuto raggiungere il centro, ma lo oltrepassammo arrivando in un posto isolato dall’aspetto di un vero e proprio paradiso: una spiaggia incontaminata, immersa nella vegetazione silenziosa e simile a un’isola sperduta. Sembrava che nessun uomo avesse mai calpestato quelle dune immacolate. Luoghi del genere non erano rari a Mackinaw City: bastava inoltrarsi, non temere la fatica, e potevi godere di paesaggi spettacolari ed esclusivi. Il silenzio e la pace di quell’inaspettata riva immersa nel verde sembravano creati solo per noi.
Dopo essersi seduta su un grande masso bianco sommerso per un quarto nelle acque del lago, la mia amica ruppe il silenzio. «Sai, Alice. Tu ed Enyel vi somigliate un sacco.»
«Cosa?» Scoppiai a ridere e mi sedetti accanto a lei. «Aylen, se c’è una persona che è il mio esatto contrario, può essere solo lei.» La mia voce si velò di amarezza. «Assieme alle altre del gruppo.»
«Dico sul serio.»
«Ma dai, Aylen, quella è una favola» risposi piegando le labbra in una smorfia.
Sembrava più una presa in giro che un complimento: come poteva fare anche solo un paragone? L’aspetto peggiore era che Aylen sapeva benissimo quanto il mio senso di inferiorità mi schiacciasse quando si parlava di loro. Non capivo proprio il suo comportamento.
«Dovresti osservare meglio.» Aylen sembrava davvero convinta delle sue affermazioni.
Per non cadere in uno stupido litigio, decisi di non proseguire il discorso. Mi feriva anche il solo pensiero di non essere in minima parte come Enyel. Non si trattava solo del suo aspetto, ma anche il fatto che sembrava particolarmente vicina al capogruppo. Spesso li avevo visti abbracciati che parlavano fitto; uno stare vicini diverso, ai miei occhi intimo. Ero arrivata a pensare che stessero insieme, ma mi ero ricreduta nel vederlo frequentare altre ragazze, tipe a cui spezzava il cuore quando il fine settimana seguente toglieva loro ogni attenzione. Purtroppo succedeva spesso. Non ne ero meravigliata; nulla mi meravigliava di lui.
Si stava avvicinando l’ora di pranzo. Non che avessi un vero e proprio impegno con mamma, quando eravamo in vacanza i nostri pasti erano sempre fugaci, però era un buon motivo per vederci prima di riprendere le nostre attività vacanziere. Mi rammaricava andare via da quel paradiso, sembrava che nulla in quel posto potesse farmi del male, ma dovevo.
Mi alzai a malincuore. «Torniamo dalla strada o preferisci la spiaggia?»
Aylen si ravvivò la folta chioma mogano baciata dai raggi del sole. «Forse sulla strada troveremo dell’ombra. A quest’ora si muore.»
«Già, hai ragione.»
Il calore risaliva dal suolo in una nebbia tremolante che ci avvolse e ci tolse il respiro. Ero sudata e appiccicaticcia. Dentro di me scommisi che nessuna delle modelle del “gruppo” si sarebbe mai ridotta in quello stato, nemmeno sotto quaranta gradi. Sorrisi tra me: cavolo, dovevano pur avere una sorta di difetto nascosto, erano pur sempre esseri umani.
«Che hai da ridere?» mi chiese Aylen.
«Nulla, stavo pens...»
Mi interruppi, accorgendomi che l’espressione della mia amica era diventata di cera... sudata, certo. Seguii il suo sguardo e compresi: erano là, davanti a noi, non tutti ma in diversi; il biondo, il suo amico di colore, l’altro dalla pelle bianca, Enyel e le sue dame di corte. Più lontano ne stavano sopraggiungendo altri.
«Dannazione, ci hanno seguite» sussurrò Aylen.
Senza pensarci, la strattonai e cominciai a correre verso la strada; i nostri piedi sprofondavano nella sabbia e ciò rese più difficoltoso il percorso. Caddi ripetutamente prima di trovare un equilibrio, mettendocela tutta per raggiungere un luogo più trafficato di quello che fino a poco prima avevo battezzato paradiso e che, come per magia, si stava trasformando in un inferno.
Mi girai a guardare se Aylen mi stava seguendo. Per lei era più semplice correre sulla sabbia, le sue gambe erano più corte delle mie e si sbilanciava di meno, ma i suoi sforzi per tenere il mio passo le avevano trasformato il volto in una maschera sofferente rosso fuoco. La afferrai, trascinandola con me per alleviarle l’enorme fatica.
Non verificai più dove fossero, se ci seguissero, a quanta distanza si trovassero: avevo troppa paura di scoprirlo. Una mano mi aveva agguantato le viscere e le stava impastando, il respiro era corto e usciva in brevi rantoli.
Giungemmo sull’asfalto bollente ormai senza fiato e allo stremo delle forze.
A quel punto fu necessario controllare quanto ci rimaneva prima che ci raggiungessero.
Eravamo spacciate.

ALICE, PRIMA

Avevamo una vita modesta, a quei tempi. Un orticello dietro casa, in cui coltivavamo patate e insalata; una stalla con cinque mucche, un toro e qualche vitello; un pollaio. Io aiutavo la mamma e il papà quando trainavano il loro carretto al villaggio per vendere uova e latte, e mi dedicavo anche alla pulizia della nostra piccola casetta. Non mi avevano insegnato né a leggere né a scrivere; questo lo avrei imparato in seguito, dopo aver conosciuto Dayaniel e gli altri.
La vita era semplice, dicevo, e ruotava intorno a queste piccole faccende che, senza lamentarmi, svolgevo ogni giorno. Ero felice. Non sentivo la mancanza di niente.
Da bambina mi piaceva sguazzare nelle pozzanghere dietro casa dopo un acquazzone, o giocare con gli amichetti nel fiume poco distante. Le poche volte in cui nevicava, tentavamo di costruire un pupazzo di neve e usavamo le carote della dispensa di mamma per decorarlo – anche se lei si arrabbiava e ci rincorreva fino al bosco. Con mio fratello Abel ci divertivamo a nasconderci nel bosco o ad arrampicarci sugli alberi.
Abel aveva sei anni in più di me. Quando ero molto piccola, ricordo che lo veneravo come un dio, e lui mi considerava la sua principessa. Quante volte si divertiva a pettinarmi i capelli, dicendomi che sembravano fili d’erba dopo la rugiada!
A mano a mano che ero cresciuta, però, il nostro rapporto si era fatto sempre più distante, fino a quando Abel non aveva deciso di trasferirsi in una fattoria lontana dalla nostra. Quella decisione aveva lasciato tutti noi spiazzati, ma sotto sotto io ne ero felice: negli ultimi tempi Abel era strano, quasi cattivo. Non scorderò mai il giorno in cui lo vidi colpire un cervo con il suo arco e gioire mentre il povero animale agonizzava.
Prima o poi anche io avrei abbandonato il nido materno e mi sarei sposata con qualche ragazzo della zona, come imponevano le tradizioni del nostro villaggio. Tuttavia nessuno aveva ancora preso il mio cuore, e così aiutavo mamma e papà nei loro lavori, anche se sapevo che a mano a mano che crescevo, e diventavo graziosa, aumentavano le possibilità che qualcuno si facesse avanti.
Poi arrivarono loro, e tutto cambiò.

Ricordo quel giorno perché diluviava e il vento aveva sradicato parte del tetto della capanna dove papà teneva gli attrezzi da lavoro e le scorte alimentari. Ero da sola in casa, i miei genitori erano partiti all’alba per recarsi al mercato del villaggio. Non ero andata con loro perché il ciclo lunare aveva decretato che quelli fossero i giorni in cui avrei perso sangue, e un forte mal di pancia mi aveva costretta a letto.
Quando il vento aveva strappato parte della paglia e alcune assi di legno erano franate a terra, il rumore mi aveva destata da un sonno a tratti irregolare. Mi ero alzata a fatica e, tenendo le gambe strette per paura che le pezze che avevo sotto la gonna cadessero, avevo raggiunto l’uscio.
In quel momento ero sulla soglia e guardavo l’acqua che, prepotente, mitragliava il tetto della capanna e parte dell’interno. Lo starnazzare di qualche gallina si sollevava di tanto in tanto dal pollaio sul retro, ma lì era tutto in pietra e il vento non poteva fare troppi danni.
Dovevo uscire e recarmi al capanno: l’acqua che entrava dal buco sul tetto avrebbe in poco tempo bagnato le patate e l’insalata che tenevamo al suo interno, per non parlare della frutta. Dovevo recuperare quanto più cibo potessi e portarlo al sicuro in casa.
Il mal di pancia non mi lasciava tregua, e le reni mi dolevano come se fossi stata per qualche ora sdraiata sulle pietre. Tuttavia presi un profondo respiro, recuperai una mantella sgualcita e bucata in più punti, la misi in testa a mo’ di cappuccio e mi precipitai fuori dalla casa.
L’acqua aveva disegnato pozzanghere lungo tutto il giardino, e le margherite annegavano in quello stagno torbido e fangoso. Non avevo calzature, e i miei piedi ben presto assunsero un colorito marrone e presero a lamentarsi per il contatto con l’acqua fredda. Non me ne curai, l’attenzione tutta concentrata al capanno.
Spalancai la porta e aguzzai la vista nella penombra. Lo squarcio sul tetto lasciava filtrare un lembo di cielo grigio, e pesanti gocce rimbalzavano a terra e sulle casse di patate. Ne afferrai una, gemendo per il dolore alla schiena. Era pesante, troppo pesante per i miei sedici anni e le mie braccia gracili. Feci qualche passo in direzione della porta, ma inciampai in una zappa e franai sul pavimento. La cassetta mi scivolò dalle mani e si rovesciò. Le patate rotolarono un po’ dappertutto, sembrava quasi che ridessero di me e della mia goffaggine.
Mi sollevai in ginocchio. La mia veste era ormai sporca di terra e fango, le pezze mi erano scivolate e si erano bagnate. Mi ero sbucciata un ginocchio. Un colpo di vento scosse il capanno e un’asse del tetto scricchiolò. Non potevo stare lì, correvo il rischio che qualche altra parte franasse. Singhiozzando, a carponi raccolsi qualche patata e la gettai nella cassetta. Avevo le cosce bagnate, ma non era acqua. Il sangue scorreva libero, adesso che le pezze erano a terra. Per ricordarmelo in maniera ancora più incisiva, il ventre prese a lanciare fitte che mi percorsero da parte a parte.
Un altro colpo di vento scosse il capanno, e questa volta l’asse si spezzò e cadde, proprio nel punto dov’ero prima. Repressi un urlo e mi catapultai fuori, lasciando cadere le patate e il mantello che mi doveva proteggere dal diluvio.
Sull’erba, alzai gli occhi al cielo plumbeo e maledissi quel giorno. Sembrava che la luna e le nuvole e la pioggia avessero deciso di farmi uno scherzo di cattivo gusto. E maledissi anche mamma e papà per avermi lasciata da sola in casa, anche se sapevano che stavo male.
Gridai la mia rabbia, i pugni stretti contro la veste logora, le lacrime che correvano sulle gote miste all’acqua.
«Non abbiate paura, Alice.»
Quelle parole, mischiate al vento che sibilava, mi riscossero. Ormai ero fradicia, i piedi lanciavano sussulti di dolore e il ventre era un rumore sordo che si mischiava al battito accelerato del mio cuore.
«Non abbiate paura, Alice. Adesso vi aiutiamo noi.»
Mi voltai verso la voce e sobbalzai. Oltre lo steccato che delimitava la strada acciottolata per il villaggio e il bosco, vi erano alcune persone. Mi osservavano, incuranti della pioggia, ed erano bellissime. Quello fu l’unico aggettivo che mi venne in mente. Bellissime e... rassicuranti.
Tuttavia mamma e papà mi avevano sempre insegnato a diffidare di chi non conoscevo, soprattutto se erano forestieri. E io non conoscevo quelle persone, né erano abitanti del villaggio.
«C-chi siete?» balbettai, indietreggiando.
Un uomo, dai capelli bianchissimi come neve ma dai lineamenti giovani, allungò una mano verso di me. «Non vi preoccupate. Non vogliamo farvi del male.»
«Voglio sapere chi siete!» strillai per farmi sentire sopra la pioggia. Poi una fitta più forte delle altre mi lacerò lo stomaco. Gemetti, e intorno a me tutto divenne scuro.
Prima di perdere i sensi, il mio sguardo appannato captò dei movimenti: quelli sconosciuti mi stavano raggiungendo.
Ancora non lo sapevo, ma da quel giorno la mia vita sarebbe cambiata.

ALICE, ADESSO

Mi ritrovai circondata dalle ragazze, mentre Aylen sembrava interessare di più ai ragazzi.
Enyel mi venne vicina con il suo solito fare strafottente e l’aria divertita. «Dayaniel, sembra che questa si diverta a farmi lo sgambetto, sai?»
Il capogruppo si voltò a guardarmi, ma non era esattamente in quel modo che immaginavo il momento in cui mi avrebbe finalmente prestato un’attenzione diversa dal solito. Sorrise, stringendo un poco gli occhi e assumendo un’espressione tra il divertito e l’ironico. Nel tempo avrei amato anche quel suo modo di fare. Nel tempo, ma non in quel momento.
«Liam, non trovi che siano tenere queste due? Così spaventate, così vulnerabili» disse al ragazzo di colore.
Quel giorno, mio malgrado, venni a conoscenza dei loro nomi: Liam, il ragazzo dalla pelle d’ebano e i muscoli scolpiti; Johnny, l’amico bianco dai ricci ribelli di un biondo platino accecante; Amy, la prosperosa amica di Enyel; Susy, quella con la carnagione olivastra e la chioma dai riflessi cobalto.
Dayaniel mi si avvicinò cauto, come se fossi stata un cucciolo ferito, e mi posò una mano sulla spalla. La delicatezza dei suoi modi mi sciolse, e il mio io si esaltò per attimi che parvero ore, per poi crollare quando la presa sulla spalla divenne una penetrante e dolorosa morsa. I suoi occhi sembravano tizzoni ardenti, il suo odio penetrava nella mia testa e mi torturava.
Perché mi odiava? Ero sopraffatta dai sentimenti e sull’orlo delle lacrime.
Liam scostò di lato l’amico, interrompendo la tortura che mi stava infliggendo; avrei portato i lividi delle sue dita affondate nella carne per un pezzo.
Mi risollevai dalla posizione a cui Dayaniel mi aveva costretta e guardai Liam, piangendo più per la frustrazione che per il dolore.
«Piccolina, non fare così. Devi solo comportarti bene con le mie amiche e con noi, altrimenti ci arrabbiamo.» Mi prese il volto tra le mani, accarezzandomi le guance e asciugandomi le lacrime.
Non ero stupida, non ci sarei cascata una seconda volta: sapevo che quei modi gentili non erano altro che il preludio di qualche prossimo sgarbo, doloroso tanto quanto quello di Dayaniel. Allontanai con malgarbo le sue mani, prendendolo di sorpresa, e urlai ad Aylen: «Andiamo.»
La mia amica non se lo fece ripetere due volte. Corremmo in maniera disconnessa, nel tentativo di farlo il più velocemente possibile e allontanarci da loro. Mi voltai per guardare a quanta distanza si trovavano e rimasi sorpresa: non ci stavano seguendo e ridevano come matti nel vederci correre con le gambe non del tutto sotto controllo, sopraffatte dalla calura del sole.
Rallentando l’andatura, afferrai il braccio della mia amica e con un cenno della testa la spronai a guardare. Una volta realizzato che il pericolo era passato, si fermò a pochi passi da me e si piegò, appoggiando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.
«È meglio non restare ferme» le dissi con il respiro corto, temendo che venisse loro in mente di raggiungerci e continuare il lavoro. «Camminiamo.»
Proseguimmo lungo la strada voltandoci di continuo, ma sembrava che quei teppisti si fossero divertiti abbastanza, tanto che dopo poco ritornarono sui loro passi. Le loro risate e frasi incomprensibili si diradarono nella torrida afa di mezzogiorno di una giornata all’apparenza iniziata come tante.
Ero di nuovo sottomessa al pianto. «Quello mi odia, se potesse mi farebbe fuori.»
«Non devi piangere davanti a loro. Non lo devi mai fare, hai capito?»
Il tono secco e l’enfasi nella voce di Aylen mi sorpresero. D’accordo che avevo dimostrato di essere una ragazzina senza scheletro, ma perché mi stava dando addosso così?
«Ehi, a te non hanno frantumato una spalla» risposi arricciando le labbra.
«So che non è a causa della spalla che ti sei messa a piangere, e questo mi dà fastidio. Loro non sono nessuno, hai capito? Non devi piangere perché ti offendono o ti fanno sentire inferiore. Non lo sei.»
Continuai a camminare, lo sguardo basso, evitando di rispondere perché non sapevo cosa dire. Non aveva tutti i torti, ma di certo la sua reazione era inaspettata: Aylen non si era mai comportata così.
Ci vollero tre quarti d’ora buoni prima di arrivare a casa, e per tutto il percorso mi martellò in testa un unico pensiero: Dayaniel. Passavo dallo sconforto a momenti di rabbia nei suoi confronti, ancora incapace di spiegarmi perché fosse così vitale per me essere nelle sue grazie, anche dopo i trattamenti che mi aveva dedicato, soprattutto l’ultimo. Mi massaggiai la spalla dove poco prima si trovavano le sue dita, e mi piegai dal male. Aylen mi guardò distrattamente; la sua aggressività sembrava aver lasciato posto a un fare scocciato.
Arrivammo a casa mia e ci salutammo.
Lei avrebbe proseguito da sola per un breve tratto prima di giungere alla sua; era sufficiente per darmi pensiero.
«Senti, ti accompagno per un po’» le dissi. «Non mi piace che tu vada da sola.»
«Quella che avrebbe bisogno della guardia del corpo sei tu, fidati» rispose in tono brusco.
«Qual è il tuo problema, Aylen? Sei incazzata perché mi sono messa a piangere? Guarda che non stavo scherzando» sbottai, abbassando il collo a barchetta della maglia color caramello e mostrandole quattro grossi lividi tondi e violacei tra la spalla e il braccio.
Un lampo le passò davanti agli occhi, come se non si aspettasse di vedere cosa Dayaniel mi aveva fatto. «Okay, Alice. Abbassiamo la guardia. Siamo stanche e ce la siamo vista brutta. È normale che siamo anche nervose. Ti va se ci troviamo nel pomeriggio? Vengo io da te e poi vediamo che fare.»
Sorrisi. Aveva ragione: era stupido litigare per loro. Rimanemmo d’accordo per vederci dopo pranzo.
Prima di andarsene, Aylen mi abbracciò. Era sempre stata esuberante, ma non pensavo lo fosse anche dopo un litigio; forse perché non era mai accaduto che litigassimo. La respinsi arrossendo, non amavo le effusioni. Feci per salutarla, ma prima che potessi raggiungere l’entrata del residence, mi richiamò.
«Ti fa molto male?»
Scossi la testa, sorridendo, e le mandai un bacio.
Finalmente a casa.

Il pomeriggio andò meglio, anche se dovemmo rinunciare alla nostra bella spiaggia e cambiare destinazione. Ritornammo in centro e ci sedemmo all’ombra di un bar a mangiare uno yogurt frozen. Chiacchierammo come se non fosse accaduto nulla, senza fare alcun riferimento al “gruppo” e a ciò che era successo quella mattina. Lo stesso fu per la sera: ci infilammo in una sorta di piccolo parco giochi gremito di bambini urlanti e risate, da cui si alzava un profumo di ciambelle. Di sicuro quelli di Encore non sarebbero mai venuti in un posto del genere.
«Quando ero piccola, mia madre mi portava spesso in posti come questo. Ho dei ricordi bellissimi» dissi godendomi quel momento. Mi sentivo serena e al sicuro.
«Mmm... sinceramente non ricordo dove mi portasse la mia». Aylen sembrava assorta nei suoi pensieri.
Lo trovai strano: tutti ricordano l’infanzia. Tuttavia capitava spesso che lei non ne parlasse o deviasse il discorso. Probabilmente, conoscendo sua madre, la sua infanzia non doveva essere stata bella.
«Domani dobbiamo trovare qualcosa da fare per ingannare il tempo fino a sera» annunciai per cambiare argomento.
«Ah, domani... Non vedo l’ora, Alice» replicò estasiata.
A ogni ora il nostro umore migliorava, a mano a mano che si avvicinava il momento in cui quei ragazzi sarebbero salpati e spariti fino al weekend successivo.

Il mattino dopo mi svegliai come al solito di buonora. Non avevo passato una bella nottata: incubi che faticavo a ricordare mi avevano tormentata per tutto il tempo. L’unico dettaglio rimasto vivido nei miei ricordi era un cancello grande e nero, ma non riuscivo a vedere al di là perché era chiuso. Mi trovavo di fronte a esso, in una piccola strada costeggiata da un bosco, silenziosa e isolata. Nel sogno, per qualche motivo ero assalita dal panico, ma non ne comprendevo la ragione.
Quando mi svegliai, ogni cosa si dissolse nella mia memoria come polvere spinta dal vento. Affrontai comunque la giornata con entusiasmo, ansiosa che arrivasse il crepuscolo per sentirmi finalmente libera.
Mi misi d’accordo con Aylen di vederci per le nove di sera a metà strada fra la sua casa e la mia, all’angolo tra la N Huron Ave e la E Central Ave, davanti alla piccola rotatoria con al centro l’orologio nero, il nostro punto d’incontro di una vita.
Mi preparai con particolare cura, odiandomi perché sapevo benissimo che lo facevo con la speranza di intravedere Dayaniel prima che si imbarcasse con l’ultimo traghetto; nonostante tutto, nonostante fosse un grandissimo bastardo. Mi sentivo anche frustrata: qualsiasi sforzo per apparire carina sarebbe stato inutile se mi fossi messa a confronto con le sue amiche.
Con un sospiro presi le chiavi di casa, poste sul mobile di noce vicino all’entrata, e uscii. Presi l’ascensore, che al suo arrivo aprì silenziosamente le porte di metallo e mi accolse all’interno. Una volta uscita, l’afa mi aggredì e mi si appiccicò sulla pelle come zucchero filato. M’incamminai verso l’incrocio dove avevo l’appuntamento con Aylen, ma me la presi con calma, visto che ero in anticipo.
Le serate a Mackinaw City, soprattutto alla fine dei frenetici weekend, erano calme e piacevoli: i numerosi esercizi colorati di tonalità sgargianti che sarebbero ingrigite una volta giunto l’inverno, resi più accessibili senza la ressa del sabato sera, davano un senso di quieta allegria. Un’aria zuccherata proveniva dai negozi di dolciumi, che di certo in quel posto non mancavano. Potevi gustare miriadi di prelibatezze: dalle paste al cioccolato, dal caramello fuso alle torte artigianali.
Mi stavo rilassando minuto dopo minuto, e camminai godendomi l’idea di sentirmi libera di girare e di essere me stessa senza provare vergogna. Passai davanti a un negozio dalle pubblicità allettanti poste sulle vetrine, che invitavano a gustare le buonissime torte salate create artigianalmente.
Ero ferma ad assaporare con la mente una fetta di torta agli spinaci quando qualcosa riflesso sul vetro mi fece inorridire. I miei occhi si ingrandirono, la mascella si serrò e i denti si strinsero.
Continuai a camminare, confusa, mentre ogni mio passo era accompagnato dalla loro voce. Il “gruppo” stava cantando a squarciagola qualcosa rivolto a me, con un chiaro riferimento al mio fondoschiena. Incassai la testa tra le spalle e accelerai, sfondando il muro di sguardi divertiti dei passanti. Le lacrime fecero capolino appena fui sufficientemente lontana, anche se alle mie spalle giungevano ancora le loro risate.
«Dannazione! Ma che cosa ci fanno ancora qui?» mi chiesi, sull’orlo di una crisi isterica.
Scrutai il lago, notando tristemente le luci dell’ultimo traghetto allontanarsi. Erano rimasti, non era finita e chissà per quanto ancora avrei dovuto sopportarli.
Il cuore si aprì appena vidi Aylen ferma all’angolo del nostro appuntamento. Quando la raggiunsi, capì immediatamente che qualcosa non andava: la mia faccia parlava chiaro.
«Che succede?» mi chiese, cercando di mantenere un tono superficiale, ma la sua preoccupazione era palpabile.
«Sono ancora qui.»
Non trovai un modo migliore per dirglielo.
Sorprendendomi, non ebbe la minima reazione. Scrutò davanti a sé il punto in cui stavo guardando io poco prima: il traghetto non era altro che un lumicino confuso tra i raggi della luna riflessa sul lago.
«Dobbiamo cercare un posto tranquillo» disse in tono indifferente, come se la mia fosse stata una notizia qualunque; di solito avrebbe dato di matto. Tuttavia, il suo atteggiamento limitò la mia ansia, convincendomi a non aggiungere altre considerazioni.
Camminammo in silenzio, procedendo lungo un percorso quasi al buio fiancheggiante il lago. Forse, nonostante il luogo isolato, prima o poi avremmo incontrato una sorta di posto dove poterci sedere, e allora le avrei parlato. Non capivo cosa avesse in mente Aylen: era mansueta e di solito non lo era mai.
Le mie previsioni non si avverarono, perché girammo per tutta la sera, a passo lento e scambiando sì e no due parole. Non facemmo menzione al “gruppo” e arrivò il momento di andare a dormire, che giunse in anticipo visto la serata rovinata.
Salutai Aylen avvertendo una strana sensazione, come se per tutto il tempo non fossi stata realmente con lei, bensì con un’altra. Forse aveva preso la notizia peggio di quel che credessi. Anche lei non ne poteva più di quella gente.
Raggiunsi a passo veloce il complesso di palazzine in cui vivevo, avevo ancora paura di incontrare qualcuno di loro che, sicuramente, era a fare casino nei paraggi. Una volta oltrepassato il grande cancello, mi trovai nella zona recintata e privata. Lì non sarebbero mai potuti entrare. Rallentai, avevo il fiato corto per la corsa.
I vialetti si suddividevano come rami verso ogni palazzo o villetta, e a ogni metro delle panchine erano poste tra le aiuole di margherite e rose perfettamente curate. Mi sedetti per riprendere fiato e pensare.
Mi trovavo lì da qualche minuto, fumando una Camel Light prima di rientrare, quando mi accorsi di un’ombra nel buio, tra un grappolo di olmi appena piantati. Strizzai gli occhi per mettere a fuoco: era proprio così. C’era una cavolo di sagoma, e dalla stazza non sembrava esattamente minuta.
Balzai in piedi, decisa a scattare verso il mio palazzo, e lanciai un ultimo sguardo oltre le spalle. La figura era più alta di me di un bel po’, anche se non riuscivo a distinguerla bene a causa del buio; l’unica certezza era che portava un cappuccio. Visto il caldo insopportabile, quel tipo di abbigliamento era un’esagerazione, ma quella persona sembrava a proprio agio e il suo interesse era proiettato non al caldo, bensì a me.
Poteva bastare. Con uno scatto corsi più veloce che potevo verso l’entrata, che fortunatamente era poco distante. Non verificai, ma fui certa che quella sagoma, senza dubbio un uomo, mi stava inseguendo.
Nella foga, non mi resi conto di alcune persone di fronte a me e le investii. Chiusi gli occhi e mi parai il viso solo all’ultimo momento, aspettando la collisione.
Non vi fu alcun impatto.
Era come se si fossero dissolte nell’istante stesso in cui vi ero andata addosso.


Sembra davvero molto bello.

Cosa ne pensate?



Buona lettura!

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